Un tratto essenziale che caratterizza il costituzionalismo repubblicano italiano è certamente il criterio della rigidità. Lo Statuto Albertino – nato prima dell’Unità, nel Regno di Sardegna, con una continuità istituzionale tra le due realtà confermata da un Sovrano che non modifica la relativa numerazione – era rimasto in vigore per un secolo, riuscendo ad adattarsi e conformarsi ai cambiamenti della società proprio grazie all’elasticità e all’idoneità ad essere modificato attraverso una legge ordinaria. Alla flessibilità, di converso, era altresì imputata l’incapacità di essere riusciti a resistere e a frenare il crescente autoritarismo del fascismo.
In questo clima l’Assemblea Costituente partorì l’attuale articolo 138, per il quale le modifiche al testo costituzionale «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo.
Dagli Atti traspare come la genesi sia stata paradigmatica, uno dei pochi casi in cui non fu sostanzialmente mai in discussione il contenuto: il repubblicano Tomaso Perassi – che di lì ad un decennio verrà nominato giudice della Corte Costituzionale – intervenne più volte in aula, ribadendo «che il primato della Costituzione si pone come un limite alle leggi ordinarie. Il che significa che la conformità alla Costituzione è un essenziale requisito per la validità di ogni legge». Agli occhi dei Padri costituenti tale soluzione sembrava sciogliere anche la delicata questione dell’immutabilità del testo, nella consapevolezza del necessario adattamento al cambiamento dei costumi e delle sensibilità della società.
Il primo cinquantennio – dal 1948 al 1998 – si è caratterizzato per modifiche sostanzialmente volte all’attuazione del progetto costituzionale, in vista dell’introduzione della Corte Costituzionale o dell’attivazione delle Regioni a Statuto Speciale. Si tratta di interventi minimi, sovente necessari per non bloccare il nuovo assetto istituzionale.
Le Commissioni Bicamerali
All’interno di questo lasso temporale, e in specie dagli anni ottanta, emerse l’esigenza di una manutenzione costituzionale: il modello adottato fu quello del ’46, con il ricorso all’istituto della “Commissione Bicamerale”, organismo collegiale composto da deputati e senatori in proporzionalità della rappresentanza politica.
Tutte portano il nome dei relativi Presidenti: quella del 1983 coordinata da Aldo Bozzi, quindi la De Mita – Iotti del 1992, infine la D’Alema del 1997.
La prima svolse 50 sedute e riguardò 44 articoli, volendo intervenire sul Parlamento, il Governo, le fonti normative, il Presidente della Repubblica, i partiti, il sistema elettorale. Appare chiaro come fosse un disegno mirante ad una maggiore stabilità dell’esecutivo, con l’introduzione della fiducia da votarsi in seduta comune e per appello nominale. Si interveniva anche sul momento della sfiducia, che doveva essere motivata e sempre parlamentare (nel tentativo di ridurre la prassi alquanto in voga all’epoca di governi che si dimettevano su indicazione partitica e senza un formale passaggio istituzionale).
In un clima alquanto diverso – si stava aprendo quella tesissima stagione poi conosciuta come “tangentopoli” – opera la Commissione Iotti: nei suoi lavori emerge il tema del regionalismo, con la richiesta di un capovolgimento del criterio delle competenze attribuite alle Regioni e la definizione di nuovi istituti di garanzia per la tutela dell’autonomia regionale. Si prefigura una forma di governo abbastanza inedita, detta “neoparlamentare”, in cui è prevista l’investitura diretta da parte del Parlamento del Primo ministro, attribuendo a quest’ultimo l’esclusiva responsabilità sulla nomina e la revoca dei ministri, formalizzando l’istituto della “sfiducia costruttiva”.
Quindi, la terza Commissione citata affidò la delicata questione della forma di Stato al giurista democristiano Francesco d’Onofrio e quella relativa alla forma di governo al privatista di area comunista Cesare Salvi, con un dibattito incentrato su un modello a tendenza semipresidenzialistica, con un’ascendenza francese.
In nessun caso si raggiunsero gli obiettivi sperati, tutto si concluse sempre con un sostanziale nulla di fatto.
Nei successivi venticinque anni si è invece assistito ad un vero e proprio sviluppo delle manipolazioni sul testo costituzionale: considerando anche quelle recentissime relative all’insularità e alle attività sportive, numericamente parliamo di un’emenda ogni due anni.
Tecnicamente si evidenziano due cambi di rotta: da una parte la presenza di interventi ridotti e mirati ad un tema specifico: la tutela dell’ambiente, la riduzione del numero dei parlamentari, il pareggio di bilancio, l’elezione diretta del Presidente della Regione, l’introduzione della circoscrizione estera, la cessazione degli effetti delle disposizioni riguardanti la famiglia reale.
Quindi, una sorta di presa d’atto dell’impossibilità di procedere secondo una condivisione tra le varie anime partitiche, in favore di proposte che sorgessero dalle sole forze di maggioranza: si tratta di un vero e proprio cambio di strategia, con cui si elimina uno degli elementi cardine, ossia la più ampia compartecipazione alle scelte delle regole del gioco e dell’assetto istituzionale.
In questo senso si è mosso il centro-sinistra nel 2001, partorendo una riforma incentrata sui rapporti tra centro e periferia, nata zoppa e che non ha prodotto gli effetti sperati: essa si strutturava attorno al principio di sussidiarietà, per cui l’azione di governo si dovrebbe svolgere attraverso il potere possibilmente più vicino ai cittadini, mentre alle Regioni fu attribuita autonomia legislativa più ampia rispetto all’originario disegno costituzionale, essendo stato previsto che lo Stato disponesse solamente di alcune competenze esclusive, mentre poi – tolte alcune materie dove permaneva la competenza concorrente tra Stato e Regioni – tutto il resto sarebbe diventato di competenza regionale. Il tutto, per giunta, senza prevedere una Camera di rappresentanza delle Regioni (sul modello tedesco, ad esempio).
Se nel 2001 si giunse ad interpellare il popolo, con un esito favorevole, nelle esperienze successive – targate Berlusconi e Renzi – il risultato fu negativo, bloccando cambiamenti più strutturati e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.
Nel 2006 il Cavaliere pose al centro del suo programma politico una proposta che ruotava attorno all’idea di un “premierato assoluto”, che avrebbe di conseguenza morfologicamente modificato le norme relative al ruolo e alle funzioni del Presidente della Repubblica, andando ad incidere sul procedimento legislativo, sulla composizione e sulle funzioni dei due rami del Parlamento, sulle competenze legislative regionali, sulla Corte costituzionale e sullo stesso procedimento di revisione costituzionale. Furono pure mosse critiche metodologiche, in quanto si contestava la possibilità di emendare in quel modo il dettato costituzionale, attribuendo all’articolo 138 la possibilità di aggiornamenti e non di cambiamenti così radicali.
Lo scoglio-referendum
Anche Renzi nel 2016 non si sottrasse al proposito costituente e predispose un testo in cui si contemplava il superamento del bicameralismo perfetto, con il Senato quale cerniera del decentramento, l’abolizione del C.N.E.L. e delle Provincie, la fiducia all’esecutivo di mera competenza della Camera dei Deputati.
In tutti e due i casi si ricorse al referendum confermativo, il cui esito negativo ebbe ripercussioni non irrilevanti per la tenuta di entrambe le maggioranze. A meno di due lustri dall’ultimo tentativo, anche il Governo a guida Meloni intraprende la strada riformatrice: sulla scorta degli insuccessi, l’intenzione è quella di intervenire con interpolazioni moderate, ma tali da dare ugualmente un segnale forte e spostare l’asse nei confronti dell’Esecutivo. Come ci spiega Gian Paolo Dolso nel suo scritto, siamo ancora ai primi vagiti di un percorso che si presenta lungo e tortuoso: si tratta di pochi articoli ritoccati, con cui implementare la stabilità, con un Capo del Governo che verrebbe direttamente eletto dai cittadini in un unico turno, con una scheda unica.
In parallelo corre pure la riforma delle autonomie sotto la spinta del ministro Calderoli, cui è affidato l’arduo compito di determinare i livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Si tratta di un processo per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119».
È un bivio importante per Giorgia Meloni: da una parte il timore, nella consapevolezza che le riforme hanno mietuto vittime eccellenti; dall’altra l’ambizione di essere la prima a compiere un concreto passo con cui cominciare un percorso di riforme che non può più attendere oltre e di cui il Paese necessita.