La presentazione ufficiale del disegno di legge sull’elezione diretta del capo del governo un risultato lo ha già raggiunto: ha costretto tutte le forze politiche a ragionare di riforme istituzionali, com’è necessario (non da oggi) e come di sicuro NON avrebbero fatto i partiti di opposizione. Probabilmente ci sarà più di un retropensiero nel modo e nei tempi scelti dal governo per imporre al Parlamento un tema che sarà al centro dei lavori in Senato già nella prossima primavera. Primo Meloni-pensiero: sarebbe un sogno riuscire dove tutti gli altri hanno fallito. Secondo pensiero: vediamo se, costringendo Camera e Senato a preoccuparsi del domani e del dopodomani delle istituzioni repubblicane, le opposizioni sentiranno il dovere di dedicarsi a questioni più importanti delle polemicucce quotidiane che si esauriscono nei pastoni dei tg e nei talk di seconda serata.
Circola un certo scetticismo sulla possibilità che la riforma possa giungere in porto così come è uscita dagli uffici del ministro delle riforme Casellati. La stessa formulazione concisa dell’articolato e il “cappello” politico messo dalla presidente del Consiglio in testa al ddl confermano il carattere aperto della riforma, emendabile e migliorabile in ogni suo punto, fatta salva – naturalmente – l’elezione diretta del Premier.
In ogni caso sembra impossibile che la riforma, sia pure emendata, possa essere votata da una maggioranza qualificata dei parlamentari, sola condizione per evitare la convocazione di un referendum confermativo. A tutt’oggi – ed è questa la vera novità come cui tutti dovranno fare i conti – tutte le ricerche demoscopiche hanno confermato un consenso largamente maggioritario in favore dell’elezione diretta. Poco importa che si tratti del presidente della Repubblica o del Consiglio, gli italiani hanno comunque voglia di decidere, quindi di delegare meno possibile le segreterie dei partiti. Certo, il consenso degli elettori alla riforma che oggi pare molto probabile sarà una potenziale arma nelle mani di Giorgia Meloni che certo rischierebbe, e molto, nella consultazione popolare, ma sulla carta il pericolo maggiore sarebbe quello delle opposizioni. In caso di vittoria dei sì al Premierato, la leadership meloninana sarebbe nuovamente consacrata e destinata a lunga vita…
La riforma istituzionale è probabilmente la sfida più impegnativa del governo Meloni: riuscire laddove tutti gli altri hanno fallito. La maggioranza degli intervistati si esprime ancora così, nonostante sia già cominciato un poderoso fuoco di fila, che in alcuni giornali (e in più di un programma televisivo) tenta di demonizzare la riforma annunciata: “Assalto alla Costituzione”, “Attentato al Quirinale “ eccetera.
In realtà nessuno, nemmeno tra i più accaniti difensori della Costituzione “più bella del mondo”, se la sente di dire che una riforma strutturale non sia necessaria, anzi indispensabile. Per districarsi, occorre evitare la trappola su “premiarato sì o no” e concentrarsi piuttosto su quale sarebbe il miglior assetto possibile per rendere più solida la democrazia e soprattutto più forte il governo (attenzione al tranello: la scommessa è il rafforzamento dell’istituzione-governo, non dell’attuale o di un governo qualche che sia). Ma quali sono le vere questioni che porranno al centro della riflessione non appena si abbasserà il polverone polemico sollevato dalle opposizioni “conservatrici”, aggrappate allo status quo nonostante gli enormi problemi che solo una riforma strutturale potrebbe tentare di risolvere?
- È decisamente malato un sistema politico che negli ultimi dieci anni ha avuto ininterrottamente governi – tecnici o politici – mai legittimati dal voto degli elettori.
- Ha sicuramente bisogno di innovazioni un sistema che nella scorsa legislatura ha visto il partito più votato (il M5S) allearsi al governo prima con la Lega poi col Pd e infine partecipare all’esecutivo guidato dal “tecnico” Mario Draghi.
- È davvero in sofferenza un sistema che, incapace di decidere normali avvicendamenti al vertice delle istituzioni, ha costretto a un secondo mandato (dopo sette anni!!!) gli ultimi due presidenti della Repubblica.
- Probabilmente la consapevolezza di esprimere un voto utile e decisivo potrebbe contrastare l’elevato astensionismo e riportare alle urne quote consistenti di elettorato.
- Se si conviene sull’obiettivo di dare stabilità ai governi futuri non si potrà non ricalcare il modello (istituzionale ed elettorale) che da decenni regola, e positivamente, regioni e comuni.
Se questo è il quadro, difficilmente contestabile, cosa osta ad un dibattito utile, a un confronto costruttivo fino al traguardo di una riforma concordata? Come al gioco dell’oca il rischio è quello che sia torni alla casella di partenza. Sicché, il sogno di Giorgia Meloni di essere il primo capo di governo a condurre in porto una riforma strutturale, diventa l’incubo delle attuali minoranze (e forse agita anche il sonno di alcuni alleati di governo).
I prossimi mesi ci diranno se una riforma necessaria, anzi indispensabile, si rivelerà inevitabilmente una missione impossibile. È accaduto almeno altre quattro volte, tra commissioni bicamerali e referendum andati male. Certamente, potrebbe accadere di nuovo. Ma stavolta anche no…