Di nuovo il Medio Oriente in fiamme, di nuovo la questione israelo-palestinese, di nuovo atrocità che tracimano ovunque, invadendo un immaginario globale già abbondantemente traumatizzato da altre atrocità, a partire da quelle cui siamo tristemente abituati (ma non assuefatti) dopo l’aggressione russa all’Ucraina.
La prima domanda che sorge è questa: c’è un legame, non tanto misterioso né sotterraneo, tra i conflitti, apparentemente distanti, del “nuovo disordine” mondiale? Ci sono certamente ragioni per sostenere che la nuova guerra tra Israele e Hamas sia il fronte più recente dello scontro tra Occidente e “resto del mondo” tutto interno alla storia globale degli ultimi anni. E che ha trovato, nel conflitto scoppiato alle porte orientali d’Europa nel febbraio 2022, la sua manifestazione più eclatante e preoccupante.
Questa considerazione ci spiega innanzi il contesto “storico” in cui è avvenuto il bestiale attacco di Hamas contro i civili israeliani, nel senso che l’impegno dell’America e della Nato in favore dell’Ucraina può aver diffuso l’idea che siamo entrati in una nuova fase di scontro tra un Occidente a trazione americana e un Oriente in forma multipolare. Di qui la probabile sensazione (ricevuta dai terroristi) che sia proprio questo il momento più adatto per azzannare lo Stato d’Israele, un’entità vista come l’avamposto mediorientale di una civiltà in difficoltà politico-culturale, soprattutto dopo l’abbandono americano dell’Afghanistan nell’agosto del 2021.
Il contesto “storico” diventa poi quadro geopolitico se consideriamo i rischi di allargamento del conflitto agli Hezbollah libanesi-siriani e all’Iran che li sostiene. La seconda portaerei inviata dagli Usa al largo delle coste israeliane e libanesi è un chiaro avvertimento a Teheran a tenere buone le milizie sciite ai confini con Israele. Probabilmente funzionerà. Ma in questi casi, quando l’atmosfera è carica di elettricità, basta un nulla a far scoppiare l’incendio. Secondo l’analista di geopolitica americano Charles Kupchan il rischio di uno scontro tra Usa e Iran è «remoto», però -aggiunge- la situazione «potrebbe sempre sfuggire di mano». Del resto, sarebbe già ipotesi catastrofica se l’eventuale scontro si limitasse a israeliani e iraniani.
E poi c’è anche da considerare l’interesse russo e cinese (Pechino e Mosca si sono ancora di più avvicinate a Teheran nel corso della guerra in Ucraina) per l’eventualità che gli Usa si ritrovino in qualche modo impelagati in un conflitto in Medio Oriente. In tale senso può essere probabilmente letta la dichiarazione del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, secondo il quale «le azioni di Israele sono andate già al di là dell’autodifesa e che (gli israeliani n.d.r.) dovrebbero ascoltare gli appelli della comunità internazionale e del segretario generale dell’Onu e fermare la punizione collettiva del popolo di Gaza». In realtà, il primo a cercare di far desistere Benjamin Netanyahu dal proposito di scaricare sulla popolazione di Gaza il suo desiderio di vendetta è stato proprio il capo della diplomazia americana Antony Blinken.
Diciamo che appare quantomeno evidente il tentativo cinese di allargare il suo spazio di influenza anche al Medio Oriente. E ciò spiegherebbe i segnali sottilmente minacciosi che arrivano da Pechino, in primo luogo la volontà di spingere Teheran a tirare la corda in questa prima fase del conflitto. Il timore è che, a furia di tirare, alla fine la corda si spezzi, con tutte le eventuali, disastrose conseguenze del caso.
Ma la vera soluzione del conflitto passa per le possibili evoluzioni nel quadro geopolitico più specificamente regionale, in particolare per il ruolo che l’Arabia Saudita può giocare nella sistemazione della questione di Gaza, tenendo conto che Israele non ha alcun interesse a tenere sotto una permanente occupazione militare quella piccola striscia di territorio ad alta densità abitativa (e a insostenibile rischio di imboscate). Una delle soluzioni proposte (e che avrebbe anche il favore della diplomazia americana) è quella di affidare l’amministrazione della Striscia all’Onu e alla Lega Araba, una soluzione che non sarebbe possibile senza l’appoggio di Riad, grande player geopolitico dell’area mediorientale. Il principe ereditario Mohammed Bin Salman avrebbe infatti tutto l’interesse a bloccare l’espansione politica dell’Iran nell’area, conseguenza inevitabile di una eventuale escalation del conflitto Israele-Hamas. Del resto, una delle prime interpretazioni dell’atroce offensiva lanciata dai terroristi palestinesi contro Israele è stata proprio il comune interesse, di Hamas e di Teheran, a fermare il negoziato tra israeliani e sauditi volto ad allargare a Riad gli accordi di Abramo. Questi accordi prevedono la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e Paesi della penisola arabica e del Golfo Persico come Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Sarebbe un risultato storico, in vista della possibile pacificazione del Medio Oriente, se anche l’Arabia Saudita riconoscesse ufficialmente Israele.
Nel tentativo di sistemare definitivamente la questione israelo-palestinese (o almeno di disattivare la minaccia di Hamas), le armi della diplomazia devono però arrestarsi davanti ai mostri dell’irrazionalità: queste entità malefiche sono il frutto di lunghi decenni intossicati dall’odio etnico, sociale e, soprattutto, religioso.
E rincresce osservare che questo tipo di odio si presenta in forma subdola anche in vari settori dell’opinione pubblica europea, dove non è infrequente incontrare l’antisemitismo travestito da “antisionismo”. Secondo certi “amici dei palestinesi”, la violenza di Hamas sarebbe la violenza degli “oppressi” contro gli “oppressori”. Nei giorni passati è più volte stata citata un’agghiacciante affermazione di Giulio Andreotti del 2006: «Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista».
Questa tremenda frase contiene due grossolani errori. Il primo è quello di identificare il popolo palestinese con i terroristi. Cosa che non è, perché in alternativa ad Hamas opera da almeno trent’anni l’ANP (l’Autorità Nazionale Palestinese), che ha giurisdizione sulla Cisgiordania e che scaturisce dagli accordi di Oslo del 1993. Non è ancora lo Stato palestinese, ma è la premessa necessaria affinché un simile obiettivo si realizzi. Tant’è che una delle condizioni poste dall’Arabia Saudita per gli eventuali accordi con Israele (ora è tutto fermo per il precipitare degli eventi) è proprio la concessione di un’ulteriore autonomia all’ANP e lo stop agli insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania. Vale la pena rilevare che non un solo colpo contro Israele è stato finora sparato dai palestinesi che vivono nei territori controllati dall’Autorità guidata da Abu Mazen.
Il secondo grossolano errore è ritenere che le nuove generazioni di palestinesi siano cresciute nei lager e che i campi profughi del passato fossero assimilabili a campi di concentramento. Si tratta di una vera mistificazione. Certo, la situazione abitativa nella Striscia di Gaza non è delle migliori, ma c’è anche da dire che da lì sono partite tutte e sette le offensive finora scatenate da Hamas contro Israele. In ogni caso, dipingere la condizione di vita dei palestinesi come una sorta di prigionia è completamente al di fuori della realtà.
Il punto vero è che Hamas, più che il frutto della questione palestinese, è piuttosto una delle varie espressioni dell’integralismo islamico degli ultimi decenni, e una espressione ad alto valore simbolico (per l’immaginario islamista) perché a diretto contatto con Israele, uno Stato che gli integralisti più feroci (a partire dai mullah iraniani) vorrebbero vedere distrutto.
Hamas, che in arabo vuol dire “zelo” (al di là dell’acronico di Movimento di resistenza islamica), è nata nel 1988 in contrapposizione alla leadership di Yasser Arafat e all’egemonia della sua “laica” Olp, accusata dai palestinesi oltranzisti di cercare la pace con gli israeliani e di volerne riconoscere lo Stato. Il risveglio politico dell’islam e la rabbia dei ragazzi cresciuti nei territori occupati (gli “shebab”, lanciatori di pietre, protagonisti della prima Intifada del 1987) trovarono il loro punto di incontro proprio in questa organizzazione, che per certi versi sembrava inverare la previsione della “nuova generazione coranica” a suo tempo lanciata dall’egiziano Sayyed Qutb, uno dei teorici dell’integralismo islamico fatto giustiziare nel 1967 dal “laico” Gamal Nasser.
Per capire quanto sia forte, implacabile e irriducibile la carica di odio che anima i terroristi di Hamas basta soltanto citare questo passo della loro Carta: «Non vi sarà soluzione alla causa palestinese se non attraverso il Jihad. Quanto alle iniziative, alle proposte e alle altre conferenze internazionali, non si tratta che di perdite di tempo e di attività inutili». Ed è appena il caso di notare che l’odio antisraeliano è in grado di raggiungere l’Europa, colpendo sia le comunità ebraiche sia qualsiasi altro cittadino. L’attentato di lunedì 16 ottobre a Bruxelles ci insegna due cose assai poco rassicuranti. Primo: il terrorismo di Hamas può produrre atroci atti di emulazione ovunque. Secondo: siamo tutti potenziali bersagli dei jihadisti. Basterà dire che le vittime dell’attentatore di Bruxelles (un tunisino quarantacinquenne affiliato all’Isis) erano due tranquilli cittadini svedesi arrivati nella capitale belga per assistere alla partita della loro nazionale di calcio con la squadra di casa.
Per tornare a Gaza, non basta certo la soluzione militare per risolvere i problemi tra israeliani e palestinesi. Ma è sicuro che ogni possibile soluzione politico-diplomatica deve passare per l’eliminazione di Hamas e del suo implacabile odio antisraeliano. Spetta a Israele (e anche agli Usa) dimostrare alle masse palestinesi che, quella proposta dallo “Zelo” islamico, è una strada senza uscita. E suicida.