Nell’arco di poco più di una settimana la logistica italiana ha sperimentato un brusco passaggio dal torpore ferragostano al caos di settembre. Il blocco parziale dei transiti nella galleria base del Gottardo, unito alla chiusura del traforo ferroviario e stradale del Frejus, ha fatto precipitare l’arco alpino in una condizione di “isolamento” simile a quella del secondo dopoguerra. Lo scenario peggiore più volte preconizzato di una interruzione contemporanea dei diversi tunnel si è poi materializzato con la chiusura programmata e rimandata della galleria del monte Bianco, accompagnata dalle criticità esistenti che riguardano quasi tutti i valichi di confine: dal colle del Tenda alle autostrade liguri nel Nord-Ovest, alla ferrovia del Brennero colpita da fenomeni franosi.
Una condizione in apparenza emergenziale e frutto del caso nasconde in realtà debolezze strutturali pluridecennali, alle quali non è stato possibile porre rimedio, pur essendo l’Italia un paese esportatore dipendente dall’arco alpino per il transito del 60% merci, pari a 170 milioni di tonnellate all’anno. A differenza del passato, non è stato il solo errore umano a causare il blocco del traffico ma anche il verificarsi di eventi climatici estremi la cui frequenza è destinata ad aumentare e a cui infrastrutture obsolete non sono più in grado di far fronte.
Sorprendentemente è il nuovo tunnel di base Gottardo ad aver mostrato per primo le sue debolezze. A seguito del grave deragliamento di un treno merci ad agosto, è previsto il dimezzamento della capacità di traffico del traforo sino al 2024 per consentire le riparazioni degli impianti danneggiati e la sostituzione dei binari. Tuttavia la Svizzera può contare sul percorso alternativo offerto in parallelo dalla vecchia galleria ferroviaria e da quella autostradale, per la quale sono in corso i lavori di raddoppio. Aver programmato per tempo le opere di AlpTransit consente inoltre di sfruttare soluzioni alternative come il nuovo tunnel del Lötschberg, in funzione dal 2007 sull’asse del Gottardo. Sul versante italiano invece le conseguenze della contemporanea chiusura dei valichi del Frejus e del monte Bianco porterebbero rapidamente al collasso l’attività delle imprese esportatrici verso la Francia e non solo. In assenza di percorsi alternativi, i costi del trasporto diventerebbero economicamente insostenibili rendendo impossibile evadere gli ordini. Il recente rinvio dei lavori di rifacimento della volta del tunnel del monte Bianco non è altro che un palliativo destinato ad incidere nel brevissimo periodo. Il mancato adeguamento dei valichi stradali unito all’assenza della nuova galleria di base del Frejus rappresenta un’ipoteca sul futuro dell’industria manifatturiera del Nord-Ovest, su cui grava una spada di Damocle destinata ad oscillare ad ogni emergenza.
I dati prodotti a più riprese dall’Osservatorio sulla Torino-Lione testimoniano come l’interscambio economico con i paesi dell’Ovest Europa abbia raggiunto nel 2017 i 205 miliardi euro, con un saldo attivo di 21 miliardi per l’Italia, rappresentando il 41% dell’interscambio totale con i Paesi dell’Unione Europea. Nel 2017 le merci trasportate hanno superato i 44 milioni di tonnellate, con una marcata prevalenza, oltre il 90%, per il trasporto su strada ai valichi di Ventimiglia, Frejus e monte Bianco. Ciò implica il transito di 3,5 milioni di veicoli pesanti, per i quali non è ancora prevista un’alternativa ferroviaria conveniente.
Nonostante il disequilibrio modale a favore della gomma, le condizioni della viabilità rimangono precarie e la presenza di nuove infrastrutture insufficiente. Se è vero che i trafori sono accessibili grazie a raccordi autostradali da ormai un ventennio, nulla è stato fatto sul fronte della capacità delle gallerie, nonostante gravissimi episodi come l’incendio del 1999 che bloccò per tre anni il traforo del monte Bianco. Nemmeno la seconda canna del Frejus operativa dal 2024 comporterà il raddoppio della capacità di transito, osteggiato pervicacemente dai comuni francesi che temono come gli omologhi tirolesi un’invasione di tir nelle valli. Rimane l’autostrada Genova – Ventimiglia: progettata negli anni 50’ per essere percorsa da appena cinquemila veicoli al giorno, oggi è piagata da decenni di mancata manutenzione di viadotti e gallerie. Il tracciato non sarebbe in ogni caso idoneo ad accogliere un volume crescente di traffico e qualsiasi opera di ampliamento si scontrerebbe con le caratteristiche orografiche sfavorevoli del territorio e gli elevati oneri concessori. Appurata l’assenza di alternative nel breve termine, lo scenario più auspicabile vedrebbe la conclusione dei lavori nel Gottardo e la contestuale riapertura del Frejus a doppia canna e del monte Bianco nel 2024, insieme ad un graduale potenziamento della viabilità in Liguria e all’inaugurazione del nuovo tunnel del Tenda. Purtroppo un simile scenario riproporrebbe l’annoso status quo ante senza apportare alcun miglioramento. Basterebbe un singolo evento per evidenziare le carenze strutturali irrisolte e far ripiombare le imprese esportatrici nel caos. Inutile aggiungere che nessun investitore sarebbe disposto a pagare un premio per proteggersi da rischi ampiamente prevedibili, condannando la manifattura italiana ad una condizione di eterna aleatorietà, che rappresenta un gravissimo vulnus competitivo nei confronti dei partner europei.
È indubbio che l’Italia non possa risolvere da sola la condizione di permeabilità dell’arco alpino. Non avrebbe senso realizzare per tempo la Torino Lione in assenza della sua prosecuzione in territorio francese, così come sarebbe inutile potenziare le autostrade in valle d’Aosta o progettare nuovi trafori stradali in Piemonte che incontrano la netta contrarietà oltralpe. Accanto allo sforzo economico, occorrerà intraprenderne uno diplomatico con Parigi e Bruxelles per far rispettare i vincoli pluridecennali previsti dai corridoi delle reti TEN-T e assicurare una copertura parziale delle opere strategiche da parte dell’Unione Europea. In questo senso è positivo l’inserimento della Genova-Ventimiglia nel corridoio Mediterraneo per finanziare la conclusione del raddoppio, ma l’arco temporale estremamente lungo dei lavori ci invita ad un sano bagno di realismo.
L’emergenza dei trafori colpisce un tessuto economico già provato dalla crescita dell’inflazione e dall’aumento dei prezzi dell’energia. Il totale disequilibrio modale a favore del trasporto su gomma ne esacerba le conseguenze e rischia di pregiudicare l’equilibrio economico anche delle imprese a più alto valore aggiunto. Una possibile soluzione nel breve periodo implicherebbe un più stretto coordinamento tra istituzioni, concessionari autostradali e operatori economici per fornire ristori mirati alle attività più colpite e per promuovere una più efficiente organizzazione dei percorsi, a partire dalla definizione di un piano di cadenzamento per la gestione delle fasce temporali di accesso ai trafori. Anche il potenziamento della rete ferroviaria esistente può dare un contributo importante, ancorché parziale. Intervenire sui sistemi di segnalamento delle linee tradizionali, in parallelo all’avanzamento delle grandi opere, renderebbe il traffico ferroviario più fluido sul modello dell’asse del Sempione e consentirebbe un’integrazione più stretta del trasporto merci con quello passeggeri, per favorire un piccolo ma significativo cambio modale a favore della rotaia. Nel lungo periodo le opzioni sul tavolo sono le stesse di quaranta anni fa: dall’autostrada Cuneo – Nizza al traforo del Mercantour, per citare due opere fondamentali, accomunate dall’essere al momento irrealizzabili. La loro natura transfrontaliera le proietta infatti in un limbo senza via d’uscita. Anche per questo l’Italia dovrebbe valutare di intervenire sulla viabilità interna, migliorando i collegamenti viari tra Liguria e Pianura Padana. Se fosse confermata la durata dei lavori nel tunnel del Monte Bianco, un piano pluriennale di potenziamento della viabilità esistente sarebbe una conseguenza logica. Ciò implicherebbe sia il ritorno a vecchi progetti ancora attuali, come la bretella Predosa – Albenga, che una ridefinizione dei rapporti concessori esistenti per assicurare la realizzazione delle nuove opere, con l’apporto di capitali che difficilmente saranno di provenienza pubblica. Anche per questo il giudizio di Bruxelles non sarà marginale.