Prima battaglia della Marna, settembre 1914: quando Helmuth Johann von Moltke, comandante in capo dell’esercito del Kaiser Guglielmo, vide i suoi soldati immersi nel fango delle trincee, capì che la guerra per la Germania si sarebbe, prima o poi, messa male. La guerra lampo, da lui vagheggiata, era diventata una chimera. Ora c’era la realtà della guerra di logoramento, il tipo di guerra in cui vince chi ha più risorse, non solo economiche ma politiche.
E alla fine forse non vince nessuno, almeno sul campo. Tant’è che la Germania capitolò, non per ragioni militari, ma politiche, per l’esattezza a causa di una rivoluzione che scoppiò tra l’ottobre e il novembre del 1918: il popolo tedesco, stremato da oltre 4 anni di guerra, non ne poteva più e si ribellò al Kaiser e ai suoi generali.
Qualcosa di simile sta accadendo oggi in Ucraina. Non che ci siano rivoluzioni in vista, né a Mosca né tantomeno a Kiev, ma nessuno riesce a vincere sul campo. Tutte le previsioni, le strategie, le proiezioni a medio termine si stanno rivelando fallaci. Ovunque è stallo.
È stallo innanzi tutto sul piano delle operazioni militari. L’annunciata controffensiva di Kiev tarda ad arrivare. Le forze ucraine avanzano, lentamente, verso Sud, con l’obiettivo di aggirare le forze russe e tagliare i loro collegamenti con la Crimea. Ma è un traguardo ancora lontanissimo. Intanto faticano a tenere una testa di ponte sulla riva sinistra del fiume Dnipro. Di contro, i russi non ce la fanno ad avanzare sul fronte orientale: la guerra ristagna intorno a Bakhmut, anche se gli scontri sono sanguinosi e le distruzioni spaventose. Entrambi gli eserciti si contendono a caro prezzo pochi chilometri di territorio.
È stallo anche sul piano diplomatico. Il cardinale Matteo Zuppi, inviato da Papa Francesco in Ucraina e in Russia, è tornato dalla sua “missione umanitaria” con generici impegni da parte russa sullo scambio dei prigionieri e sul rimpatrio dei bambini. Per il resto è buio pesto. Tant’è che i vari “mediatori”, da Erdogan a Macron, si sono ritirati dalla scena.
L’unico che potrebbe indurre Putin a sedersi al tavolo della pace è Xi Jinping, ma il Grande Mandarino si guarda bene dal farlo. O meglio, attende il momento propizio, quello che potrebbe fornirgli centralità internazionale. Il fatto è che al leader cinese conviene al momento assecondare il sogno geopolitico putiniano di creare un blocco eurasiatico contrapposto all’Occidente: la partita geostrategica che gli interessa si svolge nel Mar Cinese meridione e intorno a Taiwan.
In ogni caso, i veri scacchieri che stanno a cuore alla Cina riguardano il controllo delle materie prime africane, la circolazione dei semiconduttori, gli accordi sulla cosiddetta Via della Seta, l’accaparramento delle risorse energetiche in tutto il mondo. Finché Pechino non troverà un accordo con Washinton sui principali dossier geoeconomici (solo di riflesso geopolitici), difficilmente la vedremo impegnata sul fronte dell’iniziativa di pace per l’Ucraina. Deve far riflettere il fatto che l’ultima iniziativa diplomatica americana verso Xi Jinping sia stata condotta, non dal segretario di Stato Tony Blinken, ma dalla responsabile della politica economica dell’amministrazione Biden, la segretaria al Tesoro Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve. The business is the business. Staremo a vedere. La missione della Yellen a Pechino si è conclusa da poco.
Al momento non ci resta che osservare, più in generale, che ogni iniziativa di pace incontra un limite invalicabile: nessuno dei belligeranti è disposto a rinunciare a nulla, neanche alla più piccola porzione di territorio, a fronte dei grandi costi subiti in termini di vite umane e distruzioni materiali.
L’unica diplomazia possibile è quella (più meno implicita, più o meno occulta) del freno automatico al conflitto, una linea riservata di comunicazione tra Washington e Mosca volta a impedire che la guerra degeneri fino al coinvolgimento diretto della Nato o all’ipotesi sconvolgente del ricorso alle armi nucleari. A garantire sul campo il funzionamento di questa valvola di sicurezza sarebbe, secondo quanto riferisce “Newsweek”, la Central Intelligence Agency, meglio nota con il suo acronimo di Cia. Il patto non scritto prevederebbe, da una parte, l’impegno Usa a far sì che le forze di Kiev non minaccino il territorio russo (possibilità che aprirebbe gli scenari più inquietanti) e, dall’altro, l’impegno russo a evitare escalation e ricorso all’atomica, ancorché “tattica”, ma capace di stermini di massa in pochi minuti. Per mantenere questo equilibrio gli uomini dell’Agenzia hanno il loro da fare, non solo con i russi, ma anche con gli ucraini. Pare che Washington non abbia gradito né il volo dei droni sul Cremlino né, in precedenza, l’attentato all’ideologo di Putin, Aleksandr Dugin, che è constato la vita alla figlia del filosofo, Dar’ja.
Nessuno, al dunque, deve riportare una definitiva vittoria militare. È la strategia del logoramento, non solo praticata, ma anche teorizzata. La guerra in Ucraina potrà andare avanti ancora per anni. L’annuncio della fornitura di bombe a grappolo alle forze ucraine da parte degli Usa, annuncio che sta provocando in questi giorni varie polemiche in Europa, ha tutta l’aria di una mossa propagandistica. Non sappiamo se e quando tali bombe verranno effettivamente consegnate né sappiamo se e quando verranno mai impiegate. Zelensky si è affrettato a dire che tali ordigni (peraltro messi al bando dalle convenzioni internazionali) non verranno mai impiegati in terra russa. Che vuol dire, forse che potrebbero venire impiegati sul teatro ucraino? Sarebbe davvero strano: le bombe a grappolo sono centinaia di piccoli ordigni che piovono da una bomba-madre di 4 tonnellate sganciata da un aereo. Una parte di queste bombe esplode subito, un’altra parte può rimanere latente per anni, con il risultato di rendere a lungo insicuro un territorio. Che farebbe al dunque Zelensky, rovinerebbe la vita della gente in terre ucraine eventualmente strappate all’invasore russo? Non pare davvero credibile.
Il problema della strategia del logoramento è che le speranze di un cedimento del fronte interno russo appaiono al momento piuttosto tenui. E, a dimostrarlo, è stata proprio la recente, quanto farsesca, “marcia su Mosca” di Yevgeny Prigozhin e della sua Wagner, una parata militare di qualche decina di chilometri che non ha alla fine indebolito la posizione politica di Putin ma l’ha in qualche modo rafforzata, almeno agli occhi occidentali, non fosse altro per il brivido che ha percorso per qualche ora governi e opinione pubblica: la possibilità che la seconda potenza militare del mondo (con tanto di pauroso arsenale nucleare) finisse nelle mani di un avventuriero spalleggiato da mercenari ed ex criminali comuni. In ogni caso, le motivazioni di Prigozhin, al di là della propaganda, non erano politiche quanto affaristiche.
Il “patron” della Wagner era rimasto a corto di fondi, circostanza esiziale per le sue imprese, soprattutto per i cinquemila “legionari” stanziati in Africa che consentono a Prigozhin di partecipare al business delle materie prime in diversi Paesi. Se gli oppositori di Putin sono come questo improvvisato generale, Zar Vladimir può davvero dormire sonni tranquilli. Non è un caso che l’uomo forte di Mosca sia apparso più ringalluzzito che mai al recente vertice dello Sco ( l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che riunisce i Paesi eurasiatici insieme a Cina e India). In quell’occasione Putin ha minacciato la sospensione dell’accordo sulla circolazione del grano ucraino via Mar Nero. Non sappiamo se l’autocrate di Mosca darà seguito a questo suo annuncio, rimane però il fatto che il grano è un’arma di ricatto ancora utilizzabile dalla Russia.
Ma il problema più grande della strategia del logoramento è che garantisce il contenimento degli effetti di una guerra, non quello che può succedere dopo. Una guerra che finisce senza una vera pace può generare guerre future. I conflitti trasformano interiormente gli uomini e le donne che vi partecipano, aprendo fratture d’odio non facilmente ricomponibili.
Racconta Ernst von Salomon nel romanzo autobiografico “I proscritti” che, nella marcia di rientro in patria del novembre del 1918, i soldati tedeschi guardavano con disprezzo la gente che abitava nelle città in cui passavano: si sentivano traditi dal proprio governo e dal proprio popolo, che si erano arresi mentre loro continuavano a combattere sul campo. Sappiamo come andò a finire di lì a una quindicina di anni. E all’epoca non c’erano ancora le bombe atomiche.