Se la prima età repubblicana è stata caratterizzata da una lenta e macchinosa fase di attuazione dei precetti costituzionali, è dagli anni ottanta del Novecento che il tema delle riforme costituzionali ha cominciato a farsi sempre più impellente, non a caso in coincidenza con la caduta del Muro di Berlino e grazie ad un nuovo clima internazionale.
A ben guardare ci hanno provato un po’ tutti, spesso con risultati poco entusiastici, nonostante le iniziali roboanti promesse.
La prima Bicamerale, infatti, fu costituita nel 1983 ed era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui prese il nome. I lavori coinvolsero 40 parlamentari – divisi equamente fra i due rami del Parlamento – e durarono 50 sedute. Uno sforzo che giunse ad un nulla di fatto, così come capitò alle esperienze successive, con la Bicamerale De Mita – Iotti del 1992 e quella presieduta da D’Alema nel 1997.
Risonanti speranze, per l’appunto, cui non si è mai riusciti a dare seguito, per l’incapacità di trovare un equilibrio istituzionale che sapesse dare concretezza alle differenti richieste che emergevano dal tessuto sociale, economico e politico.
Sarà solamente il frastuono di tangentopoli e la distruzione della partitocrazia a provocare uno scossone, prima di tutto rimodulando l’immunità parlamentare – il tema all’epoca più scottante –, attraverso la legge costituzionale n. 3 del 1993 che riscriveva l’articolo 68 della Costituzione, passando da un regime di autorizzazione a procedere ad un regime di autorizzazione ad acta e riducendo sensibilmente le prerogative del potere politico innanzi a quello giudiziario.
L’altra tematica all’epoca scottante fu certamente quella collegata alla “questione del nord”, strettamente connessa alla formazione di nuove realtà politiche a stampo regionalistico e dalla forte impronta identitaria ed autonomista, che vedevano in una differente rimodulazione del rapporto tra centro e periferia la strada verso un ammodernamento della macchina istituzionale.
Gianfranco Miglio fu il pensatore – e il politico – che, con tutta probabilità, incarnò meglio di tutti questa sensibilità. Il celebre teorico, invero, aveva cominciato ad occuparsi di riforme dall’inizio degli anni ottanta, quando, con un gruppo di studiosi poi conosciuti come “Gruppo di Milano” puntava a risolvere il deficit di capacità decisionale dell’Esecutivo attraverso una serie di correttivi molto pervasivi, tra cui l’elezione diretta del primo ministro, il meccanismo della «sfiducia costruttiva» e il rafforzamento dei poteri della Corte costituzionale. Accanto a questa prospettiva, altrettanto marcata era la polemica contro lo Stato unitario e accentratore, da sostituire con un modello federale che, sull’esempio dei cantoni svizzeri, dividesse la Penisola in alcune grandi aree macroregionali, partendo dal presupposto dell’artificiosità della segmentazione prodotta dal Costituente.
Per evitare una deriva schiettamente federale, le forze del centro-sinistra nel 2001 diedero vita ad una riforma, nata zoppa e che non ha prodotto gli effetti sperati: essa si strutturava attorno al principio di sussidiarietà, per cui l’azione di governo si dovrebbe svolgere attraverso il potere possibilmente più vicino ai cittadini, mentre alle Regioni fu attribuita autonomia legislativa più ampia rispetto all’originario disegno costituzionale, essendo stato previsto che lo Stato disponesse solamente di alcune competenze esclusive, mentre poi – tolte alcune materie dove permaneva la competenza concorrente tra Stato e Regioni – tutto il resto sarebbe diventato di competenza regionale. Di fatto questi decenni hanno dimostrato come la competenza residuale si sia ridotta a ben poca cosa, anche grazie ad una lettura estensiva che la Corte ha dato delle materie di competenza esclusiva dello Stato. Veniva anche riconosciuta una maggiore autonomia finanziaria in capo agli Enti, tuttavia tutta da attuare per via legislativa.
Questa riforma si inserisce in un claudicante percorso che con il nuovo Millennio ha conosciuto tre tentativi di metter mano al testo costituzionale in maniera organica, attraverso il meccanismo previsto dall’articolo 138, per il quale le modifiche «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo.
Se nel 2001 si giunse ad interpellare il popolo, con un esito positivo, nelle esperienze successive – targate Berlusconi nel 2006 e Renzi nel 2016 – il risultato fu negativo, bloccando cambiamenti più strutturati e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.
Questi precedenti aprono al delicato problema del metodo da adottare per completare positivamente un iter di riforma costituzionale: ad oggi, infatti, risultano aperti tavoli di lavoro che sembrano muoversi parallelamente.
Da una parte la riforma delle autonomie sotto la spinta del ministro Calderoli, cui è affidato l’arduo compito di determinare i livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Si tratta di un processo che muove dall’anomalo referendum consultivo indetto dalla Regione Veneto – poi seguita dalla Lombardia – nell’ottobre 2017, in cui quasi cinque milioni e mezzo di elettori regionali sono stati sollecitati a conferire mandato ai rispettivi vertici esecutivi per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119». Si tratta di trovare un nuovo equilibrio in relazioni a quelle funzioni che possono essere richieste dalla Regione e – trovato l’accordo con il Governo – poi trasferite, puntando ad una più elevata qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini e del territorio e utilizzando le risorse secondo criteri di economicità e produttività.
Dall’altra parte la questione della forma di governo, che ha di recente visto aprirsi un tavolo di confronto tra la maggioranza e le opposizioni.
Quindi, il tavolo dedicato alla giustizia, le cui connessioni in caso di riforma costituzionale non possono essere sottovalutate, se solo pensiamo alle implicazioni relative alla guida del Consiglio Superiore della Magistratura e della nomina dei giudici costituzionali da parte del Presidente della Repubblica. Si tratta di competenze certamente da ripensare in caso di adozione di una forma di governo di tipo presidenziale.
Appare evidente come tutti questi aspetti debbano essere tenuti assieme e coordinati, per aggirare nuovi sfasamenti e per evitare di incespicare in un nuovo decennio di tentativi di riforma inconcludenti o velleitari, tra spinte riformiste e tendenze a conservare lo status quo.
L’intento dell’attuale maggioranza è quello di trovare una sua sintesi interna, alimentando sia le spinte autonomiste quanto quelle di potenziamento dell’Esecutivo: due pilastri attorno ai quali trovare la necessaria sintesi politica, dando così ascolto alle istanze di modernizzazione di cui il Paese ha obbiettivamente necessità.
Se l’idea di diventare i demiurghi della Costituzione attrae quanto Ulisse dalle Sirene, la recente storia, però, racconta come sia un tema su cui quasi tutti quelli che si sono cimentati nel tentativo di riforma hanno finito per farsi male.
La solidità di Giorgia Meloni appare al momento incontestabile, ma non dovrà sottovalutare gli inciampi di un percorso affascinante quanto periglioso: sono carte da giocare solamente quando in mano si è certi di avere una scala reale.