In questi ultimi giorni o settimane il tema delle riforme costituzionali sembra di nuovo tornato al centro dell’agenda politica del Governo e della maggioranza che lo sostiene, motivo per cui è forse opportuno cercare di fare il punto almeno su alcuni dei modelli chiamati in causa.
Quando si utilizza il concetto di forme di governo in sostanza si fa riferimento alle regole che presiedono i rapporti tra i poteri dello Stato, diversamente dalle forme di Stato che ineriscono alla relazione che intercorre tra cittadini e Stato (forma di stato democratica, liberale, autoritaria…). Vi sono una serie di modelli astratti: si ragiona, tra le altre, di forma di governo parlamentare, presidenziale, direttoriale. Tali modelli, tuttavia, rimandano quasi sempre a ben precisi paradigmi che si sono inverati nella prassi. Questo perché sulla forma di governo incidono molteplici fattori che mutano ovviamente da Paese a Paese e che quindi condizionano anche l’assetto istituzionale: il sistema dei partiti, la legislazione elettorale, il livello di decentramento, solo per citarne alcuni.
Presidenzialismo e dintorni
Ciò nondimeno, si possono indicare alcuni punti di riferimento in relazione alle varie ipotesi sul tappeto. Innanzitutto la forma di governo presidenziale. L’archetipo di tale modello, a cui anche i manuali di diritto rimandano quando si tratta di illustrarne le caratteristiche, è quello disegnato dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Se l’elezione diretta del Capo dello Stato è caratteristica immancabile di questo modello, tipica è anche la concentrazione di poteri in capo al Presidente che è di norma il vertice indiscusso del Potere esecutivo (sempre riferendosi agli Stati Uniti, non si ragiona nemmeno di ministri ma di segretari di Stato, che sono ovviamente nominati dal Presidente e da questo revocabili in ogni momento). In Europa è una forma di governo poco diffusa e le esperienze maturate, ad esempio, in alcune realtà dell’America latina non hanno dato sempre buona prova di sé. Negli Stati Uniti – Paese che appunto funge da paradigma – si tratta di un assetto che ha resistito all’usura del tempo, senza per vero mai creare situazioni che ne consigliassero un superamento, nemmeno nei periodi più critici della storia americana. Questo perché il sistema è ispirato al principio dei pesi e contrappesi (checks and balances), di modo che la concentrazione di poteri in capo al Presidente risulta di fatto mitigata. Essa infatti è controbilanciata da una serie di elementi, tra cui le prerogative di controllo riconosciute in capo agli organi parlamentari, la cui maggioranza non sempre coincide con quella che ha espresso il Presidente; la presenza di un potere giudiziario forte, connotato da una Corte Suprema che non di rado ha operato come “contropotere” rispetto anche a scelte presidenziali; infine il potere – da parte degli organi parlamentari – di mettere sotto accusa il Presidente in caso di commissione di reati (impeachment). Si tratta di elementi per lo più caratteristici del sistema statunitense e non facilmente trapiantabili in altri contesti. Quello che è chiaro è che, laddove il sistema dei checks and balances non sia così sviluppato, il sistema difficilmente avrebbe lo stesso “rendimento” che si registra negli Stati Uniti.
Si è nel tempo sviluppata una variante di questa forma di governo che riunisce elementi tipici della forma di governo presidenziale e tratti caratterizzanti di quella parlamentare: da una parte l’elezione del Presidente della Repubblica, dall’altra il necessario rapporto di fiducia – sconosciuto nelle forme di governo presidenziali – che lega Governo e Parlamento e da cui dipende la stessa esistenza del Governo: se la fiducia viene meno, il Governo è tenuto a rassegnare le dimissioni. Come l’archetipo del presidenzialismo è costituito dagli Stati Uniti, il paradigma utilizzato per ricostruire il modello semipresidenziale è dato dalla Francia. Si tratta di uno schema in cui il Presidente della Repubblica è eletto dal popolo ma condivide, pur avendone l’indubbia primazia, il potere esecutivo con un Capo del governo che per vero lui stesso nomina e che deve essere sostenuto dalla fiducia parlamentare. Il Presidente della Repubblica ha svariati poteri, che tuttavia possono anche essere meno ampi di quanto previsto nel modello francese. Talvolta accade – e questa è una disfunzione del sistema – che il Presidente e il Parlamento siano espressione di maggioranze politiche diverse: si tratta dei casi che in Francia sono stati etichettati come “cohabitation”. Non sono molti in Europa i Paesi che hanno adottato il semipresidenzialismo.
I poteri del premier
Altra forma di governo che viene evocata, e di recente pare quella più gettonata, è quella del “premierato”, anche se in questo caso si può ragionare di forma di governo solo in senso atecnico. La proposta di un “Governo del Primo Ministro” era stata peraltro avanzata già alla fine degli anni Novanta da Romano Prodi. Con tale formula si vuole alludere in effetti non tanto ad una forma di governo specifica, ma a modelli anche diversi tra loro, accomunati però da una accentuazione di poteri del Capo del governo funzionale ad assicurare maggiore coesione all’interno della compagine governativa (anche alla luce del potere di nomina e soprattutto di revoca dei ministri riconosciuta al premier) e a garantire una maggiore stabilità degli Esecutivi. Tra gli altri poteri spesso riconosciuti in questi modelli al capo del governo vi è anche quello di sciogliere le Camere (potere che la Costituzione vigente include tra le prerogative del Presidente della Repubblica). Il premier gode di norma di una legittimazione popolare, che può essere anche indiretta. Proprio quest’ultimo è il caso della Gran Bretagna, ove il voto popolare non investe direttamente il Capo del governo ma, secondo una consuetudine costituzionale, viene nominato premier il capo del partito che ha vinto le elezioni. Si tratta di una designazione che è legata alla permanenza del premier alla guida del partito: perdendo la leadership del partito, le dimissioni del Primo Ministro saranno inevitabili (come di recente confermato dal caso di Teresa May).
Un’altra variante del modello prevede l’investitura popolare diretta del Capo del governo, anche se l’Esecutivo deve comunque avere la fiducia delle Camere. Questo modello è stato denominato “neo parlamentare” e risulta oggi praticamente sconosciuto nel panorama del diritto comparato (se si accentua un periodo di vigenza di esso in Israele). Nell’ambito di questa forma di governo può essere previsto che in ogni caso di cessazione dalle funzioni del Presidente eletto dal popolo si determini automaticamente lo scioglimento delle Camere, con un meccanismo simile a quello che nel nostro ordinamento è stato adottato nelle Regioni ove vige, con riguardo al Presidente della Regione eletto dal popolo e al Consiglio regionale, il meccanismo del simul stabunt, simul cadent che comporta lo scioglimento del Consiglio in caso di mozione di sfiducia, dimissioni o morte del Presidente (art. 126 Cost.).
Se si pone l’accento sui poteri del Capo del governo, anche la forma di governo vigente in Germania può essere fatta rientrare tra i modelli connotati dalla centralità di questa figura, fattore che ha contribuito ad assicurare una tendenziale stabilità degli Esecutivi nella recente storia costituzionale tedesca. Non a caso si ragiona di Cancellierato, rimarcando in tal modo il “peso” del Cancelliere nelle dinamiche dei rapporti tra i vari poteri dello Stato. Tale centralità conosce due declinazioni. Da una parte il Cancelliere, pur eletto dalla Camera “politica” (il Bundesrat) e non direttamente dal popolo, dispone di poteri più ampi del nostro Presidente del Consiglio: tra le sue prerogative spicca quella di poter nominare e revocare i ministri che compongono il Governo. Dall’altra parte la sua posizione è rafforzata dal fatto che ogni tentativo di togliere il sostegno parlamentare al Governo passa attraverso la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, con ciò intendendosi quel meccanismo in base al quale la mozione di sfiducia può avere corso solo nel caso in cui l’Assemblea elegga a maggioranza un successore, chiedendo quindi al Presidente federale la revoca del Cancelliere in caria.
Al netto di tutto questo, tra i vari elementi che condizionano la forma di governo e il suo funzionamento, è da considerare pure il tasso di decentramento esibito dai vari sistemi. È significativo a questo proposito comparare due modelli che pure condividono la finalità di conferire al vertice dell’Esecutivo poteri più penetranti. Da una parte il modello francese, fortemente centralista, e dall’altra il modello tedesco, che dà vita ad uno Stato federale, caratterizzato dalla presenza di una Camera del Länder (Bundesrat). Si tratta di un elemento da prendere in considerazione in quanto tocca i rapporti tra cittadini e istituzioni: il disegno, diverse volte abbozzato, di dare vita ad un Senato delle Regioni, limitando alla sola Camera le funzioni squisitamente politiche (in primis la fiducia), forse non andrebbe dismesso, avendo esso il pregio non solo di poter convivere con modelli costituzionali anche diversificati tra loro, ma anche di completare il processo di decentramento della nostra Repubblica (art. 5 Cost.), anche al fine di porre rimedio alle disfunzioni prodotte dalla riforma costituzionale del 2001,che ha finito per scaricato sulla Corte costituzionale un contenzioso tra Stato e Regioni che sarebbe preferibile trovasse altre e diverse sedi di composizione.
Quelle tratteggiate sono solo le linee essenziali di alcuni dei modelli a cui ci si può ispirare, essendoci poi numerosi altri profili che connotano le forme di governo sommariamente descritte e a cui si sta in questo periodo guardando.
Condizioni da rispettare
Quello che è in ogni caso essenziale osservare è che le forme di governo vivono in determinati contesti storico-politici le cui caratteristiche finiscono per determinarne il successo. Il mero trapianto di paradigmi costituzionali difficilmente può dare gli stessi risultati prodotti nei sistemi dove quei sistemi si sono sviluppati. Oltre all’esperienza britannica, ove le consuetudini, di livello costituzionale, costituiscono la fonte principale del sistema di governo, anche nei sistemi di civil law la prassi gioca un ruolo decisivo nel funzionamento delle istituzioni. L’ingegneria costituzionale non appartiene certo al novero delle scienze esatte, dipendendo la forma di governo da molte variabili, alcune delle quali non modificabili poiché legate al codice genetico di ciascun ordinamento.
Ciò nondimeno un intervento mirato sui meccanismi di funzionamento delle istituzioni potrebbe determinare gli effetti desiderati, a patto che alcune condizioni siano rispettate. In primo luogo, data per scontata la chiarezza degli obiettivi perseguiti, vi deve essere un nesso di consequenziarietà tra gli interventi messi in campo e i risultati che si vogliono raggiungere, ad esempio la sempre evocata stabilità degli esecutivi. In secondo luogo va considerato che un diverso quadro di regole costituzionali potrà innescare positive dinamiche a livello di sistema solamente se le forze politiche saranno disposte ad assecondare il cambiamento determinato dal nuovo assetto normativo con comportamenti che, adattandosi al mutato contesto, migliorino la “resa” della macchina. Si tratta di comportamenti che, se reiterati nel tempo, potranno dare luogo a convenzioni o a consuetudini costituzionali che, colmando le inevitabili lacune del tessuto normativo, contribuiranno a metterne a fuoco il significato alla luce delle finalità sottese al procedimento di revisione costituzionale.
In definitiva il nuovo quadro di norme, seppure imprescindibile, non esaurisce certo l’intero processo di revisione costituzionale, che conosce un prima – costituito dalla fase progettuale che deve tenere conto delle particolarità del nostro sistema istituzionale – e un dopo – dato dal recepimento del nuovo quadro normativo da parte del sistema politico –, momenti questi non eludibili nella prospettiva di una realizzazione compiuta del disegno riformatore.