Politica

Se ritornano politica e partiti

La Costituzione Italiana è nata imperniandosi convintamente sulla forza dei partiti politici per garantire quel pluralismo che doveva essere la svolta riflessa nei confronti del fascismo. Proprio per garantire quella forza, le attese dell’alleanza antifascista – che covavano fin dai primi anni ’40 – la Carta Costituzionale talvolta tace, omette, per lasciare nell’indefinitezza dei suoi spazi grigi, un maggiore spazio di manovra ai partiti che erano i protagonisti della vita politica e civile. Ciò accade con i requisiti per ricoprire le carica di Presidente del Consiglio, per l’iter delle consultazioni, per la gestione delle crisi di governo: dei “buchi” costituzionali che nell’allora unico orizzonte proporzionalista traevano giustificazione nel protagonismo dei partiti.

Oggi con un’affluenza alle urne, nelle ultime elezioni politiche, del 63,9% – la più bassa di sempre – con punte di non voto del 60% alle ultime regionali di Lazio e Lombardia che fine dovrebbe fare un’architettura costituzionale che si regge su basi così diverse?

Come può oggi una tale delegittimazione essere coerente con dinamiche che chiudono la “filiera” del processo decisionale e legislativo? Con gruppi parlamentari spesso scissi dai partiti, con Presidenti delle Camere paradossalmente sempre più politici e meno bipartisan, con iter legis chiusi alla società esterna, con Aule che si sostituiscono all’approfondimento dei lavori in Commissione, con dibattiti spesso stravolti da maxi emendamenti ed incalzati da voti di fiducia incombenti?

Il generale dibattito sulla necessaria revisione costituzionale e sull’adeguamento ad una società di 75 anni dopo dovrà porsi queste problematiche, garantendo alla società di entrare di più nei meccanismi decisionali, pur in una crisi dei corpi intermedi a loro volta evidente. Andrà probabilmente rivalutato un lobbismo sano e professionalmente evoluto, preparato, “europeo”, in grado di incidere positivamente sulla qualità del prodotto legislativo.

Ai partiti resta il problema del consenso. In una società istantanea, senza memoria, senza passato, senza verità, senza attendibilità delle fonti, il consenso non è più tale. E’ espressione elettorale di quel preciso momento, sull’onda di quello specifico sentiment che muove numeri solo all’interno di chi continua a recarsi alle urne, senza fare i conti con chi non vota più.

Il contesto non è più quello del corpo elettorale, ma è quello della folla, i partiti non sono più assembleari, ma unipersonali, con un voto che è espressione di breve periodo, tutto emotivo e per nulla razionale ed è così che sono saliti sull’ottovolante Renzi, Salvini, Di Maio, giungendo ad un Governo Meloni figlio della stessa logica, ma che tuttavia sta riproponendo una forma partitica o, comunque, fortemente politica.

Se non c’è consenso, non c’è, tanto meno, appartenenza, resta indefinito il grado di condivisione delle idee, dei programmi e delle politiche e perciò ‘se i partiti non vogliono partire’ debbono porsi il problema del consolidamento. E’ pur vero che è cambiata la società globale e la società non la cambi; e compito della politica è saper leggere l’attualità, ma non per questo rinunciare ad un ruolo, se non di guida, almeno di stimolo a non lasciarsi polverizzare da una libertà paradossalmente omologante.

Per la Destra potrebbe essere opportuno procedere con l’approccio della semplicità, per strutturare il consenso in un vasto sentimento benevolo, facilmente divulgabile, fatto di simbolismi sani ed inclusivi, senza cadere nella canea sguaiata dei suoi detrattori, ma con “la serenità delle proprie ragioni” come diceva Giorgio Almirante o più tardi Pinuccio Tatarella quando parlava di “Partito degli italiani”. Si tratta di percepire la modernità attraverso la “trasgressione” di rimanere conservatori.

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