In attesa che il nuovo Pd formato Elly Schlein imprima una svolta alla politica italiana (una svolta invocata da molti corifèi, anzi da alcuni tifosi già salutata come cosa già fatta, è bastato qualche decimale di punto in più conquistato nei sondaggi) il governo di Giorgia Meloni ha cominciato a fare sul serio, cioè a scrivere il futuro prossimo dell’Italia con l’avvio di riforme strutturali (si pensi al fisco e al superamento del reddito di cittadinanza) che solo un esecutivo politico con mandato elettorale chiaro potrà portare a termine.
A pensarci bene, è stata proprio Giorgia Meloni a cambiare il Pd. Senza la sua poderosa affermazione – prima donna leader, eccetera – Elly non avrebbe avuto nessuna possibilità di successo e lo stesso Pd si sarebbe guardato bene dall’azzardare una scommessa così ardita. Mediaticamente la semplificazione è inevitabile, ricercata e costruita con tutta se stessa dalla nuova leader piddina. Quel suo biglietto da visita esibito lo scorso settembre in un comizio (“anch’io sono una donna, non sono una madre, amo un’altra donna…”) era il suo modo di candidarsi al ruolo di anti-Meloni (“sono una donna, sono una madre, sono italiana…”) anche se adesso, a missione compiuta, va mostrando di considerare limitativo quell’antagonismo in larga misura inevitabile.
Politicamente, l’effetto Meloni ha determinato anche una spiccata radicalizzazione politica. Che significa: a una maggioranza che gli elettori hanno voluto declinare nelle forme di un destra-centro, corrisponde ora un’opposizione il cui partito maggiore accentui la sua identità di sinistra, ponendosi in diretta competizione con il demagogismo del movimento post-grillino e allontanando la prospettiva di un’intesa con quei due partiti di centro in cui convivono ambizioni smodate e modestissimo consenso elettorale (una prospettiva che invece avrebbe forse occupato la scena, se avesse prevalso il competitor Bonaccini).
La faccenda si complica notevolmente se ci si chiede qualche sia ora l’identità del Partito democratico, quale impronta la nuova guida stia imprimendo al nuovo cammino politico che – com’è giusto in una democrazia consolidata – ha il dovere di puntare al successo elettorale e al governo della Nazione. La faccenda si complica perché, seguendo lo schema della contrapposizione destra/sinistra incarnata dalle due leader, a fronteggiarsi sono anche due storie in grado di evocare visioni, programmi e progetti. Della Meloni si sa: rivendica la sua storia di destra nelle sue progressive evoluzioni (lei, anagraficamente, ha attraversato le più recenti, da Alleanza nazionale in avanti) e, personalmente, incarna la biografia di chi ha puntato tutto sulla forza delle idee e sulla tenacia di underdog irriducibile; doti specifiche che una buona parte degli italiani ha giudicato affidabili e meritevoli di fiducia.
Che storia è quella di Elly Schlein? La sua biografia personale è crocevia di tante storie familiari: tra America e Svizzera, tra cultura ebraica e alta borghesia, tra fluidità di genere e convinto sostegno alle tutte le rivendicazioni Lgbtq+ eccetera. Ora si tratta di tradurre politicamente questo bagaglio composito e complesso. D’impatto, pare complicato tenere assieme – con identica convinzione e con pari impegno – i cosiddetti diritti civili e un ritorno della sinistra al fianco degli ultimi, quelli che un tempo erano la classe operaia e che ora sono gli emarginati, gli ultimi e gli esclusi, in parte privi di vera rappresentanza politica (e quindi delusi, astensionisti arrabbiati con sacrosante motivazioni) in parte approdati a una destra sociale che con quelle fasce di popolazione ha mostrato capacità di dialogo, comprensione, vicinanza, ascolto.
Un’altra questione ha a che fare con la storia – importante, tragica e nobile- della sinistra italiana. Il Pd formato Elly non può prescinderne, per quanto innovativa sia la sua attuale leadership e nonostante la sua storia sia assolutamente un’altra, diversa, lontana. Si pensi al rapporto con il cattolicesimo, oggi di qualche rilievo ma per lunghi tratti assolutamente necessario (nel confronto o in opposizione) per ogni forza politica italiana. Se affondiamo nel passato del Pci (che, occhio e croce, sta al Pd come il Msi sta a FdI) ritroviamo il Togliatti favorevole all’articolo 7 della Costituzione sul concordato (contro il parere dei laicissimi socialisti e azionisti). Negli anni Sessanta Enrico Berlinguer, allora segretario dei giovani comunisti, alle ragazze che studiavano da dirigenti nella scuola del partito, indicava due modelli da seguire: la martire partigiana Irma Bandiera e Maria Goretti che pagò con la vita la strenua difesa della sua verginità È lo stesso Berlinguer che dieci anni dopo, da segretario del Pci, avrebbe proposto alla Dc il compromesso storico, ispirato – oltre che da molteplici necessità politiche – anche dal timore che l’ondata post-Sessantotto potesse creare una società di “uomini vuoti”, di “esseri senza valori”, come paventava il suo consigliere Franco Rodano. Per non dire di Pierpaolo Pasolini, che indicava ai suoi compagni del Pci il pericolo di lasciarsi irretire da un “pericoloso conformismo dei diritti“, da un “moralismo disumano”.
Storia troppo lontana per poter incidere sul presente del Pd? Nemmeno troppo. Basta ricordare che, alla nascita del partito, con Veltroni leader, taluni intellettuali speravano che davvero quella fusione tra la sinistra post-comunista e la corrente della sinistra post-democristiana (che si era raccolta nella Margherita) fosse una “grande novità” perché partorita dagli eredi di “due grandi partiti atipici in Europa, da due grandi importanti tradizioni” (così Giuseppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci).
L’impressione prevalente, oggi, è che il Pd si sia definitivamente affrancato dalla sua stessa tradizione, anche recentissima. Di qui lo spaesamento, la confusione, la misura di una scommessa che sarà difficile giocare e complicatissimo vincere.
Questione cattolica? Elly Schlein sembra privilegiare un approccio – come dire? – borderline. Pare propensa a privilegiare il vangelo queer della sua amica Michela Murgia, che scrive di voler rappresentare “le persone Lgbtqia+” e coloro che “si trovano occasionalmente nella condizione di dover cercare un compromesso tra la propria coscienza e gli insegnamenti dei fede”. Dio, spiega la Murgia, non è per pochi ma “per tutt3”, con quel 3 neutro, che violenta le intelligenze e ferisce la lingua italiana…
Intanto, in attesa di un programma compiuto e di scelte concrete, dal giorno stesso dell’elezione di Elly, il papà del ddl affondato in Senato, Alessandro Zan, si ripropone in tutti i talk politici della tv, volto rappresentativo dei riferimenti e degli ancoraggi irrinunciabili per il nuovo Pd. Il primo a togliere il disturbo, poche ore dopo le primarie, è stato l’ex Margherita Beppe Fioroni, salutato sgarbatamente (“Ne è uscito uno, ne arriveranno tanti”) dalla sardina Santori; un minuscolo ma significativo episodio che dice molto sull’aria che tira, dentro e attorno al Pd formato Elly.
Impossibile fare previsioni, tale e tanta è la fluidità in genere e del Pd in particolare. A distanza di alcune settimane, mi sentirei di replicare un tweet che scrissi la sera stessa della vittoria nel ballottaggio con Bonaccini: “Con Elly Schlein alla guida del Pd, Giorga Meloni ha i decenni contati”.