Nel corso dei primi mesi di attività l’indirizzo del governo in politica estera si è caratterizzato per una sostanziale continuità con l’eredità di Mario Draghi sul piano atlantico. Se da un lato il vincolo esterno che grava sugli apparati di difesa è stato rispettato, come dimostrato dall’approvazione della risoluzione sull’invio di armi in Ucraina, il rapporto con la dimensione europea è da ridisegnare e consolidare.
Non poteva essere altrimenti. La compressione dei tempi dovuta al giuramento dell’esecutivo a ottobre e la presentazione della legge di bilancio, non avrebbero potuto accelerare un percorso di per sé lento e graduale, la cui riuscita non dipende solo dalla asserita maturità del governo italiano.
Come prima prova, si può affermare che il vertice del G20 ha avuto un esito più che soddisfacente. Il consolidamento del rapporto con gli Stati Uniti è stato giustamente avvertito come una priorità indifferibile, complici gli eventi bellici in corso e il bilaterale con Joe Biden potrebbe essere l’occasione per valicare definitivamente gli steccati legati al pregresso rapporto con Trump. Non è difficile immaginare che l’amministrazione americana abbia privilegiato un approccio concreto con l’Italia, in grado d’includere Giorgia Meloni nel consesso internazionale, se i prossimi impegni verranno rispettati. Il sostegno americano non potrà quindi prescindere dal supporto militare all’Ucraina e dal nuovo perimetro dei rapporti con la Cina, da fissare al più presto in previsione della scadenza del memorandum sulla via della seta nel 2024 e del possibile sostegno all’iniziativa parallela degli USA “Partnership for Global Infrastructure”.
Le elezioni di metà mandato hanno congelato per i prossimi due anni gli assetti politici d’oltreoceano ed un atteggiamento prudente è più che mai d’obbligo alla luce delle che contorsioni che attraversano il Partito Repubblicano. La sfida per Giorgia Meloni sarà mettere al riparo da turbolenze politiche la relazione privilegiata con gli Stati Uniti, da sviluppare indipendentemente dall’inquilino della Casa Bianca, presentando l’Italia come partner affidabile e maturo, che agisce senza dover dare l’impressione di svolgere i “compiti a casa”. In questo senso, la partecipazione al progetto del caccia Tempest con Gran Bretagna e Giappone evidenzia una proiezione indo-pacifica che, per quanto inedita, non risulterebbe sgradita agli apparati di Washington.
Per razionalizzare il rapporto con Pechino, il governo dovrà tenere conto dei mutamenti nella scena internazionale, ma l’approccio da falco del Presidente del Consiglio annunciato in campagna elettorale non può pregiudicare i rapporti economici esistenti, in settori non strategici. Molto si è scritto sull’interesse dell’Italia a bilanciare gli squilibri commerciali esistenti con la Cina nel settore manifatturiero. In particolare, per aumentare le esportazioni dei prodotti ad alto valore aggiunto, che generano un impatto su occupazione e Pil non trascurabile, evitando al contempo un depauperamento della proprietà intellettuale a vantaggio delle imprese cinesi. La lotta al nuovo dumping invece, implicherebbe un maggior peso del tema dei diritti umani e delle minoranze etniche, da sviluppare in un accezione etica ma soprattutto economica. Un importante passo in questo senso è stato compiuto dalla Commissione Europea, con l’adozione del nuovo regolamento per il contrasto ai sussidi esteri che distorcono il mercato interno.
Il ruolo nella UE
Rimanendo nel vecchio continente, le maggiori asperità deriveranno come ampiamente previsto dalla relazione con le istituzioni europee. Non sbaglia chi immagina Giorgia Meloni di fronte a un “bivio”. Le prossime settimane saranno vitali infatti per comprendere la direzione che prenderà il governo e come questa potrà ripercuotersi sugli equilibri interni. La recente crisi diplomatica con la Francia può essere in parte espunta dalle urgenze che catalizzeranno l’attenzione della Commissione. Inoltre la pressione migratoria sull’Italia non è più vissuta come un evento straordinario e i numeri, seppur in crescita, sono risibili se paragonati ai flussi generati dalla crisi Ucraina. Ancora meno sono quelli oggetto della contesa con le ONG. Il problema quindi assume caratteri spiccatamente politici, legati all’ostilità mostrata da Macron verso un governo marcatamente di destra e all’asserito pericolo “contagio” sovranista in Francia. Tali insidie non sono egualmente avvertite dall’Unione Europea, che vede la sua anima policentrica più disposta al dialogo con il Governo Meloni. Ciò è in parte dovuto alla ricerca di nuovi equilibri politici nel PPE, alternativi ad una ennesima riedizione della grande coalizione a Bruxelles.
Se un alleanza con i conservatori non potrà escludersi dal 2024, è nell’immediato che si concentrano le vere urgente programmatiche: la revisione del PNRR costituisce il primo tassello della verifica sull’affidabilità dell’esecutivo e sulla capacità di portare (o non portare) a termine gli obiettivi programmati dai suoi predecessori. La crisi energetica ha dimostrato tutti i limiti di un approccio intergovernativo, ma nel tête-à-tête con la Commissione Giorgia Meloni sarà obbligata a raggiungere un compromesso. In questo senso lo scontro su POS e limiti al contante ha oscurato una manovra che, benché emergenziale, è stata apprezzata dai mercati e i correttivi auspicabili dovrebbero essere minimi. Il differenziale tra BTP e BUND è in diminuzione e l’esecutivo ha dimostrato nelle misure di ricalcare il solco di Mario Draghi, pur con un approccio chiaramente più politico.
Il futuro dialogo con l’Unione si dipanerà lungo il rapporto con Orban, da chiarire una volta per tutte senza sbavature e nella ratifica del MES. Bere l’amaro calice del vincolo esterno cui l’Italia appare comunque destinata è più che una formalità. Rappresenterebbe il culmine ma anche l’inizio di un processo di reciproca accettazione tra Palazzo Chigi e la Commissione, da sviluppare con la riforma del Patto di Stabilità nei prossimi mesi. In questo senso le baruffe con Macron possono costituire l’occasione per ampliare il dialogo già esistente con la Germania per un’analoga definizione di un trattato del Quirinale con Berlino. La dialettica da instaurare con Bruxelles potrebbe condurre a un definitivo alleggerimento dei limiti alle politiche fiscali dei paesi sovra indebitati, ma più che un accordo con la Francia questo presuppone una maturazione nell’utilizzo degli spazi di bilancio che dovrebbero essere concessi agli Stati membri, anche alla luce del giudizio che i compratori di debito pubblico daranno sui programmi di governo. Una volta affrancati dall’ombrello della BCE, toccherà all’Italia guadagnare sul campo la fiducia degli investitori, già accordata durante la finanziaria, smentendo il catastrofismo praticato dall’attuale opposizione in campagna elettorale.
In questo contesto mutevole e incerto va delineandosi progressivamente il ruolo del Quirinale. L’esercizio discrezionale della moral suasion del Colle è destinato a influire con intensità variabile sull’indirizzo politico dell’Esecutivo nei confronti delle Istituzioni europee. Tanto più Mattarella agisce nelle ampie vesti di unico garante degli obblighi internazionali nel rapporto con l’Unione, quanto più si profila il rischio di una sovrapposizione con le scelte del governo, come già accaduto nel confronto con la Francia. Nello scenario più auspicabile i due poteri dovrebbero muoversi all’unisono nell’interesse del paese e in questo senso può essere letta l’attività di mediazione svolta dal Presidente della Repubblica alla prima della Scala con Ursula von der Leyen. Il primo passo per la legittima accettazione da parte dell’Europa passa per la rottura del muro dell’incomunicabilità, che entrambe le parti hanno parzialmente eretto nel corso degli anni. Reciproche concessioni sono inevitabili e la dialettica dei prossimi mesi potrebbe alternare momenti di crisi transitorie con alcuni Stati membri, per i quali la responsabilità è spesso condivisa, alla faticosa ricerca della sintesi con la Commissione sui dossier all’ordine del giorno. Toccherà a Giorgia Meloni far convivere l’arte del pragmatismo con il mandato politico che gli elettori le hanno inequivocabilmente affidato.