Archiviata la stagione del Covid-19, la Unione Europea si muove rapidamente verso la chiusura di quelle ferite che hanno rivelato tutta la debolezza del mondo globalizzato così come pensavamo che si stesse affermando dal crollo della Unione Sovietica ad oggi. La frattura delle catene del valore createsi, è il caso di dire, da una parte all’altre del globo ha ricordato alle industrie continentali e nazionali come uno dei primi fattori per la riduzione del rischio di investimento sia la prossimità delle materie prime alla base dei processi produttivi.
Se i grandi gruppi industriali si stanno già muovendo in una ottica di reshoring almeno parziale delle catene del valore, sembra proprio che il mondo politico di un continente come quello europeo, abituato da tempo ad essere consumatore finale di prodotti fabbricati ed assemblati altrove, non stia seguendo gli stimoli del mercato con la grave colpa di perdere opportunità che in inglese, si direbbe, avvengono una volta per generazione.
Tesla, Enel, Intel, sono solo tre dei grandi gruppi che hanno previsto investimenti miliardari nel vecchio continente per facilitare e prendere parte alla decarbonizzazione ed elettrificazione dell’industria che porta con sè una riorganizzazione del comparto della elettronica, che, complice le tensioni nel mar della Cina, prevede in parte di abbandonare Taiwan.
Con esse si è riaffacciato dunque un vecchio protagonista delle rivoluzioni industriali che hanno permesso il percorso delle genti europee verso lo sviluppo ed il benessere dei giorni nostri, sto parlando della industria mineraria.
Relegato ai musei cittadini di qualche ex distretto estrattivo ormai convertito in riserva naturale il comparto minerale europeo se non sarà parte integrale del ritorno in Europa della produzione industriale ne sarà uno dei principali fattori di insuccesso.
La riduzione del rischio che giustifica investimenti di lungo periodo e con essi i livelli occupazionali caratteristici della industria manifatturiera, deriva dalla prossimità almeno parziale dei prodotti su cui si basano le produzioni. E se l’industria italiana ha a lungo favorito l’approvvigionamento di questi ultimi dalla catena di commercio mondiale (intermedi tessili, metallici, legno, minerali energetici,…) sarebbe un grave errore perdere l’opportunità di riconsiderarne alcuni aspetti, ora che l’occasione si presenta per tutti i paesi europei.
Due sono le notizie che hanno colpito chi scrive e che nonostante la portata delle cifre in gioco (questo dà una misura della febricità con cui il mercato sta reagendo ai nuovi stimoli) si sono susseguiti nel volgere di pochi mesi :
1 – Il più grande gruppo minerario al mondo, RioTinto, annuncia a metà 2021 l’imminente avvio di un progetto di investimento (2 miliardi di euro) in Serbia per la ricerca, l’estrazione e la produzione di carbonato di litio per fornire, fra gli altri, il nascente mercato europeo delle batterie elettriche. Due mesi di proteste dei cittadini per delle condizioni non chiare del sito di sfruttamento sono sufficienti per la marcia indietro del governo serbo che pone una pietra tombale a fine Gennaio 2022 sulle iniziative del gruppo angloamericano.
2 – Uno dei più grandi gruppi minerari francesi, Imerys, annuncia un progetto di investimento (1 miliardo di euro) nella Francia centrale per estrarre e processare volumi di idrossido di litio sufficienti alla produzione di batterie per circa 700.000 macchine all’anno (la mega fabbrica Tesla prevista in costruzione vicino Berlino prevede di costruire almeno 100.000 ogni anno). Il progetto contirbuirà a creare più di 1000 nuovi posti di lavoro e a favorire l’indipendenza francese ed europea nel settore. Così riporta il comunicato stampa, assicurando al governo francese la dedizione della società nel contribuire allo sviluppo delle comunità con cui si troverà a collaborare e dell’ambiente in cui opererà.
In Italia una ricerca del 2007 dell’ISPRA commissionata dal Ministero della tutela dell’ambiente e del territorio ha individuato 3.000 siti minerari, ubicati soprattutto fra Sardegna (427), Sicilia (724), Toscana (416), Piemonte (375), Lombardia (294), Veneto (114). Di questi siti, oggi ne sono attivi solo 300. Il motivo della loro dismissione, nella maggior parte dei casi, fu legato agli alti costi di produzione rispetto al costo del materiale d’importazione, alle tecniche di estrazione troppo impattanti non più al passo coi tempi, ma anche alla forte pressione ambientalista.
L’abolizione dei distretti minerari, le cui prerogative sono ora gestite dalle Regioni, ha determinato un aggravio ulteriore per il possible sviluppo di collaborazioni fra società private ed enti pubblici con funzioni di raccordo e facilitazione nella nuova composizione di una catena del valore di carattere locale, nazionale ed europeo.
Le opportunità ci sono. Adesso è il momento per la politica di coglierle e di fornire un indirizzo in grado di convincere le aziende che tutto il sistema paese è pronto a supportare lo sforzo industriale richiesto per fronteggiare le sfide che lo attendono.