Il multilateralismo è bello, ma non funziona. La globalizzazione è bella, ma è anche schizofrenica. Il cosmopolitismo è bello, ma se lo possono permettere solo i ricchi. L’Europa è bella, ma sa essere spietata. Il multiculturalismo è bello, ma dal prossimo isolato in poi può essere l’inferno. Benvenuti nell’epoca del disordine globale.
Non ci siamo capitati da un giorno all’altro. Da più di vent’anni, diciamo dall’11 settembre 2001, non è che una sequela di bruschi risvegli: dal pantano iracheno a quello afghano, dallo scoppio della bolla speculativa del 2008 alla crisi dei debiti sovrani in Europa, dalla delusione per le “primavere arabe” ai massacri dell’Isis, dall’emergenza Covid al ritorno dell’inflazione, all’aumento delle materie prime, alla filiera globale rallentata, all’impoverimento dei già poveri. Come se non bastasse, oggi ci ritroviamo anche una guerra ai confini dell’Europa, con il conflitto Russia-Ucraina che ci costringe a dormire con un occhio chiuso e con uno aperto perché pensiamo sempre che qualcosa di brutto potrebbe capitare da un momento all’altro. E venti di guerra arrivano anche dall’Indo-Pacifico, con il risiko sino-americano nei pressi di Taiwan che contiene una sua logica profonda, anche se può sfuggire a molti. Ne parleremo più avanti.
Il problema a questo punto è provare a mettere ordine (mentale) nel caos (cognitivo) del mondo odierno. Non è una questione accademica, ma una primaria esigenza politica. Per una media potenza come l’Italia si tratta di capire qual è il suo ruolo, il suo destino, il suo posto nel mondo. Detto in altri termini, non si può pensare la politica estera senza inserirla nella giusta cornice teorica. Oggi questa cornice può essere disegnata principalmente dalla geopolitica: non è più tempo di ideologie, come durante la guerra fredda.
Intendiamoci, non che la geopolitica sia diventata necessaria soltanto dagli anni Novanta in poi. Il fatto è che prima, al tempo del bipolarismo mondiale Usa-Urss, era una sorta di scienza “esoterica”, preferendo, quasi tutti i commentatori, rappresentare la dinamica internazionale, non come il confronto geostrategico tra blocchi di potenza, ma come il conflitto ideologico tra “mondo libero” e “mondo comunista”. Una rappresentazione, certo necessaria, ma non sufficiente a spiegare tutti gli sviluppi possibili nelle varie regioni della Terra.
Sicuramente era una rappresentazione che stava stretta all’Italia, le cui esigenze geoeconomiche e geopolitiche non sempre coincidevano con la sua collocazione atlantica. Tant’è che la nostra politica estera si concedeva ampi margini di autonomia negli scacchieri che più direttamente ci interessavano (soprattutto sotto il profilo dell’approvvigionamento energetico) come quello mediterraneo. Questi spazi di manovra erano consentiti dalla rendita di posizione derivante dall’essere l’Italia cruciale terra di confine, sia dal punto di vista geopolitico (come frontiera Est-Ovest e come limes Nord-Sud) sia ideologico (da noi operava il più forte partito comunista d’Occidente).
La fine della guerra fredda ha fatto saltare questa rendita di posizione, distruggendo la cornice teorica entro la quale era pensabile (e spiegabile) la politica estera italiana.
La grande illusione di questi ultimi trent’anni è stata che le nozioni di multilateralismo, globalizzazione, Europa potessero sostituire la solida cornice a suo tempo fornita dalla Cortina di Ferro. Ma, come abbiamo osservato in premessa, questa nuova cornice si è progressivamente sfaldata di pari passo con l’avanzata dell’instabilità globale.
Realismo politico
Per l’Italia, l’opera di ricostruzione della cornice entro cui ripensare i propri interessi deve partire da due punti fermi.
Primo: adottare il criterio del realismo politico, rinunciando a inseguire il modello dell’etica suprema e conquistando la consapevolezza che l’ideale della Pace perpetua è solo il sopraffino spunto per un godibilissimo trattato di Immanuel Kant. E nulla più.
Secondo: avere coscienza che non esistono più, per il nostro Paese, rendite di posizione, ma interessi da difendere con fatica. E ciò senza naturalmente arrivare a esasperazioni nazionalistiche, ma senza nemmeno nascondersi dietro equivoci internazionalismi. Il che significa ad esempio capire che possono esistere interessi divergenti anche rispetto a Paesi alleati. Pensiamo al confronto, più o meno sottotraccia, con Turchia e Francia nel Mediterraneo. Oppure al braccio di ferro con il fronte dei “frugali” riguardo ai vincoli finanziari europei, un braccio di ferro che l’emergenza Covid ha solo attenuato, ma non risolto.
Il realismo politico ci suggerisce che sulla scena mondiale non si scontrano oggi le forze del Bene contro quelle del Male, ma niente altro che gli interessi scaturiti dalla potenza, interessi uniti a quelle frontiere sopravvissute alla globalizzazione (in quanto barriere eminentemente mentali) che Samuel Huntington chiamava “civiltà”, cioè perimetri geostorici e geospirituali divisi da “linee di faglia” che qualsiasi geostratega deve rispettare, se non vuole causare troppi guai.
Questa consapevolezza, applicata alla crisi internazionale che più oggi ci assilla, la guerra in Ucraina, ci porta alla conclusione che non si riuscirà mai a disattivare tale conflitto finché si rimane dentro lo schema dell’etica applicata alla geopolitica.
Appare assai più produttivo invece interpretare l’odierna guerra come l’espressione esasperata dell’insicurezza geopolitica russa, un carattere che a sua volta discende da una più storica insicurezza geoculturale: secondo Huntington, la Russia è un «paese in bilico» tra Occidente ed Eurasia. Di qui il fatto che l’ossessione identitaria, lo stretto legame tra religione e politica, la fobia per le invasioni da Ovest si rovesciano in una politica estera aggressiva e imperialistica. Se la Russia -osserva sempre Huntington – «diventasse un paese occidentale, la civiltà ortodossa cesserebbe di esistere». È per questo che «il crollo dell’Unione Sovietica ha riacceso tra i russi il dibattito sulla questione cruciale dei rapporti tra Russia e Occidente».
Le “linee di faglia”, come insegnava il politologo di Harvard, vanno riconosciute al fine di costruire una coesistenza possibile. In questo senso lo schema “class of civilizations” (scontro delle civiltà) serve a costruire la pace, una pace minima e precaria quanto vogliamo, ma senz’altro preferibile all’ideale della Pace perpetua, il cui perseguimento rischia di provocare grandi guai.
Per quanto invece riguarda l’altra area di instabilità che oggi ci preoccupa, l’Indo-Pacifico, vale la pena di osservare che il confronto tra la Cina di Xi Jinping e gli Usa di Joe Biden presenta i caratteri tipici dello scontro di potenze, ancor più della contrapposizione Washington-Mosca. Il colosso asiatico ha accumulato in pochi anni una tale ricchezza e una tale influenza da spostare il confronto con gli Usa, dalla mera competizione economica, alla rivalità strategica e militare.
La trappola di Tucidide
Pechino è realmente proiettata a sfidare gli Usa nella loro pulsione all’unipolarismo. È una situazione in sé pericolosa, al di là della diffusa opinione che una guerra Cina-Usa non converrebbe a nessuno. Il problema è che la logica di potenza, se lasciata a se stessa, può innescare meccanismi distruttivi. Il politologo americano Graham Allison ha elaborato in proposito lo schema della “trappola di Tucidide”, dal nome dello storico greco che narrò la guerra del Peloponneso. Neanche Atene e Sparta volevano la guerra, però alla guerra furono egualmente condotte da una perversa logica interna: l’ascesa di Atene insidiava il primato di Sparta sul mondo greco. Si arrivò al conflitto perché Sparta non voleva rinunciare alla sua supremazia e, da parte sua, Atene non voleva interrompere la sua crescita di potenza e frenare le sue ambizioni sull’intera Grecia. L’odierna Sparta, secondo Allison, sarebbe rappresentata dagli Usa. Mentre Atene sarebbe conseguentemente la Cina.
A dispetto di Tucidide, è alla fine assai probabile che le due superpotenze sfuggano alla “trappola” che porta il suo nome. Ma questo schema ci dice anche che le ragioni della contrapposizione Washington-Pechino sono profonde e strutturali e che quindi la tensione nell’Indo-Pacifico è destinata a durare ancora a lungo. E qualche esiziale “incidente” può sempre capitare.
Al dunque, come perseguire l’interesse nazionale in assenza di un vero centro di gravità permanente? Va da sé che l’Italia deve imparare a pensarsi in termini geopolitici e geoeconomici in tutta l’autonomia che può esserle consentita dal rispetto delle alleanze in cui è storicamente inserita.
Ciò significa, in termini strategici, proiettarsi con più decisione e assertività nello scacchiere mediterraneo, nella consapevolezza che nessuno (né l’Europa né la Nato) verranno a toglierci le castagne dal fuoco in alcune complicate questioni che ci riguardano direttamente. Una su tutte: la questione Libia. Il “protettorato” turco della Tripolitania e quello russo della Cirenaica mettono in discussione la nostra sicurezza in un’area per noi cruciale, il Canale di Sicilia. Né va dimenticato che il Mediterraneo sta ridiventando una zona calda a causa della guerra in Ucraina, come testimoniato dai recenti (e allarmanti) movimenti della flotta russa in un altro mare di casa, l’Adriatico.
Non mancano certo all’Italia mezzi e competenze per disegnare le giuste proiezioni geostrategiche. Però l’opinione pubblica nazionale deve fare la sua parte, cominciando a liberarsi dai comodi (e un po’ furbeschi) cosmopolitismi e pacifismi degli anni passati per assumere un abito mentale più duro e realistico, l’unico che ci può sorreggere nel tempo dell’instabilità globale.
Era bello il nuovo ordine mondiale. Il problema è che non è mai esistito.
di Aldo Di Lello