La morte a 84 anni di Madeleine Albright giunge in un momento particolarmente complesso per l’Occidente. L’aggressione russa all’Ucraina riporta alla mente ferite mai del tutto rimarginate che hanno messo a dura prova l’apparato valoriale su cui si fondano le nostre democrazie liberali. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando l’appartenenza ad uno dei due blocchi si configurava come scelta obbligata e spesso oltremodo sofferta, perché indipendente dalla volontà dei popoli, la libertà di autodeterminarsi degli stati nazionali è stato il sentimento distintivo che più ha contribuito allo sgretolamento dell’Unione Sovietica. Questo concetto, apparentemente messo da parte, riemerge con tutte le sue contraddizioni e pone davanti ad un bivio l’Occidente, che mai nella sua storia è stato percorso da dubbi tali da rischiare di pregiudicarne il futuro.
Oggi sappiamo con certezza quanto la negazione delle legittime aspirazioni dell’uomo, come individuo e collettività, sia la più soffocante tra le forme di autoritarismo. Madeleine Albright, nei suoi anni da Segretario di Stato, ha dato prova di saper riconoscere quando la cappa opprimente dei regimi in crisi si trasforma nel pretesto per perpetrare i peggiori crimini, rivendicando il diritto all’impunità in nome di una particolare declinazione della legge del più forte. Oggi la Russia, vestiti i panni consunti della desueta eredità imperiale, mostra al mondo di non voler accettare il fallimento del proprio modello politico, erede mancato di uno altrettanto rovinoso e rivendica il diritto di decidere in nome e per conto di una nazione sovrana che non considera tale, un tempo persino sua “vassalla”, nella più totale indifferenza dei cambiamenti intercorsi dal crollo dell’Unione sovietica e delle aspirazioni del popolo ucraino.
Intendiamoci, spesso siamo noi occidentali a dare per scontata la natura stessa delle nostre istituzioni, delle quali mostriamo sempre più spesso di non apprezzarne la vetusta “normalità”, a cui però non abbiamo faticato ad abituarci. Non deve sfuggirci che quello stesso modello che viene criticato ingiustamente conserva una fortissima carica di attrattività, tanto più per chi non ha mai potuto beneficiare delle condizioni favorevoli in cui l’Europa è stata imbevuta, con la forza, dopo anni di conflitti. Per qualcuno quindi, sarà sempre più facile ritenere che quella ucraina sia una pia illusione e che in ogni caso la collocazione geografica prevale su quella valoriale, dimenticando che quest’ultima, a differenza della prima, può pur cambiare. Anche per Croazia e Bosnia prima e Kosovo poi, si è dibattuto in Europa su una bizzarra forma di tacita accettazione delle aggressioni militari a danni di popolazioni inermi, un tempo facenti parte della ex Iugoslavia. Madeleine Albright ha dimostrato ai teorici della legge del più forte, che questa deve essere applicata sino in fondo, e non ipocritamente confinata alle dimensioni regionali di un’aggressione militare. Un concetto oggi più che mai valido, quando strani spiriti pacifisti manifestano la contrarietà all’invio di armi all’Ucraina, un modo vigliacco e pilatesco per consegnarla ipocritamente al proprio destino di vittima.
Oggi la Slovenia e la Croazia in poco più di vent’anni sono transitati a livelli di benessere mai sperimentati durante il lungo regime titino. Entrambe sono pienamente integrate nell’Unione Europea sia da un punto di vista valoriale che economico, se l’Occidente non avesse sostenuto a livello politico la volontà di affrancarsi da un regime ingombrante sulla via del tramonto, oggi non avremmo potuto dire lo stesso. In alcuni casi però, come quello del Kosovo, solo il supporto militare ha potuto scongiurare conseguenze simili a quelle della Bosnia, dove una sterile no fly zone non impedì all’ allora Repubblica Serba, capitanata da un personaggio tristemente noto come Radovan Karadzic, di portare avanti una lunga operazione di pulizia etnica. Senza l’intervento NATO in Kosovo avremmo potuto commemorare i morti della violenza prevaricatrice, a cui solo i bombardamenti hanno posto fine.
Sino a che punto è lecito rispondere con una forza soverchiante ad una che si pone in modo altrettanto schiacciante nei confronti della sua vittima designata ? Ben inteso, non è questo il caso dell’Ucraina, che ha dimostrato di resistere contro una potenza nucleare ben più di quanto noi Occidentali avessimo pronosticato, non solo grazie alle informazioni dei satelliti spia e alle armi leggere che giustamente affluiscono alle forze di Kiev. Il popolo ucraino appare ben più motivato e convinto delle proprie scelte e l’aggressione Russa, che è invece immotivata tanto quanto lo sono i suoi giovani coscritti sbandati, è destinata al fallimento anche sul piano tattico e non più solo su quello strategico.
L’occidente, che appare assalito dai sensi di colpa di un passato non troppo lontano, si percepisce come una civiltà in declino, ignorando però che sono gli imperi sulla via del tramonto che hanno bisogno di ricorrere alla violenza per riaffermare la propria primazia valoriale sui propri vicini. Se il modello del capitalismo democratico di ispirazione americana fosse un punto di arrivo di cui vergognarsi, non si comprende come mai la sua attrattività dopo un secolo sia intonsa e il complesso valoriale sotteso alla libertà economica e civile continui a rappresentare il faro per quei paesi che rivendicano il diritto di salire sul treno del progresso e delle libertà, come li intendiamo non senza le naturali contraddizioni negli Stati Uniti e in Europa.
È chiaro che queste aspirazioni utopistiche si scontrano con difficoltà spesso insormontabili: il Kosovo ancora oggi vive una condizione ibrida di tensione etnica e politica, molti paesi dell’ex Patto di Varsavia sono democrazie tutt’altro che mature come nel caso dell’Ungheria e della Polonia, Romania e Bulgaria d’altro canto rimangono ben lontane dagli standard di vita occidentali. La distanza che spesso intercorre tra le legittime aspirazioni e la capacità di realizzare gli obiettivi spesso è incolmabile, soprattutto quando si abbraccia un sistema politico ed economico radicalmente diverso da quello passato.
Calare un modello “di importazione” in una realtà con la propria identità nazionale senza rispettarne le singolarità, sconta diversi ostacoli che l’Occidente ha sperimentano rimediando concenti delusioni in Medio Oriente o creando inutili divisioni non rimarginate come in Nord Africa, dove semmai ci fossero vincitori non sono Europei. Le difficoltà però, se razionalmente ponderate, non devono essere addotte come ragioni che ostano ai grandi cambiamenti che ciclicamente la storia ripropone, tantopiù quando non sono indotte dall’esterno.
Se la volontà di autodeterminarsi nasce dalla rinata consapevolezza di un popolo sul suo collocamento storico, è giusto sostenerla sino in fondo. Non basta quindi neutralizzare le forze attaccanti come in Kosovo o fornire armi e supporto logistico come nell’Ucraina. Chi crede realmente nei valori dell’Occidente deve essere disposto a difenderli e promuoverli anche cessate le ostilità, con la stessa convinzione che porta i sostenitori del “capitalismo autoritario” alla Cinese a decantarne l’indubbio pregio di aver sottratto alla povertà un miliardo di contadini, ignorando però che questo ha avuto come prezzo il loro assoggettamento ad un regime leviatanico, a cui piace essere temuto più per la sua presunta efficienza che per le numerose crepe che l’Occidente in crisi di autostima finge di non vedere.
La competizione tra regimi che ha contraddistinto mezzo secolo di storia è destinata a tornare in auge, se gli Stati Uniti e l’Europa non riacquisteranno la necessaria consapevolezza sul proprio passato non sarà possibile difendere ad armi pari le vere istituzioni repubblicane, in patria e all’estero. Il Kosovo e l’Ucraina a suo modo rappresentano due esempi di affrancamento etnico e politico che il tempo ha potuto in parte attutire e che derivano da una nuova consapevolezza delle proprie capacità di autodeterminarsi. Sostenere un simile processo contro l’inevitabile reazione di paesi in declino permetterà di riacquisire fiducia anche nel nostro avvenire con una rinnovata unità di intenti.
*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo