Il Ministro degli Affari Esteri Di Maio aveva, ad inizio agosto, appena concluso il suo viaggio diplomatico in Libia per tentare di ridare all’Italia un ruolo da protagonista, quando, molto più ad oriente, precipitava la fine del regime afghano. Poco più di due settimane dopo fuggiva di fatto il presidente Ghani – ultima marionetta americana – una fuga meno discreta del re Luigi XVI…
Poco in comune però tra la rivoluzione francese portatrice di ideali di libertà e di diritti, e il regime talebano che avevamo potuto osservare anni fa, come parentesi Jihadista , tra l’invasione sovietica e lo sbarco americano dell’inizio secolo. Sono tornati, forse diversi – sarà da giudicare sui fatti – e il capo del partito dello stesso ministro degli affari esteri, Conte, invita al dialogo con questa possibile nuova versione talebana, versione XXI secolo.
In premessa, non c’è dubbio che un “fondamentale” della diplomazia è di mantenere il dialogo, un filo conduttore con tutti, in particolare con i potenziali nemici. In tal senso, Conte ha probabilmente ragione, come lo fanno Cina, Russia, Emirati…che mantengono la loro ambasciata…ma la vigilanza e la coerenza con i propri valori devono essere una priorità nel stabilire o mantenere il dialogo.
Certo che la storia afghana è soprattutto la storia di un fallimento, quello dello “state building”, una versione politically correct della colonizzazione. Si prendono modelli e principi occidentali, politici, culturali, religiosi, economici e si pensa potere applicarli dovunque senza pensare alla realtà delle identità e dei popoli, convinti di un potenziale “tutto si compra”. Già la tappa successiva si mette in ordine di marcia, e mentre la fuga è in atto, fioriscono le minacce di prossime sanzioni, di privare il paese di una banca centrale e così di far valere la nostra forza di convincimento, ormai umiliata, fallita sul terreno. L’analisi dei benefici – illusori – del sistema “sanzione” dovrebbe invece spingerci ad identificare altre vie a supporto delle nostre politiche internazionali.
Peggio, sono centinaia di miliardi andati in fumo – non per tutti – e soprattutto centinaia di vita di soldati europei e americani che oggi si domandano perché sono morti. Domani saranno nuovi flussi migratori in Europa – certo non finiscono negli USA – flussi che interpellano doveri umanitari e capacità del nostro vecchio continente a gestire questa crisi.
In Afghanistan, il sistema “tribale”, di “clan”, di etnie, sono una componente essenziale del paese, in Libia il sistema tribale è LA componente del paese. In Afghanistan era nato un embrione di stato, fantoccio e corrotto, ma la progressiva urbanizzazione della società consentiva premesse di cambiamenti culturali, in particolare per le donne.
In Libia non esistono tradizione di uno stato articolato, strutturato e lo stesso Gheddafi sapeva di dover gestire le diverse realtà tribale per meglio presidiare il paese e la “sua rivoluzione”. La Libia è rimasta lacerata dell’intervento voluto dalla presidenza Sarkozy. Oggi in alcun casi le tribu sono diventate mafie locali che “gestiscono” il dramma dei flussi migratori.
In Afghanistan, gli USA, aprendo direttamente negoziati con i taliban – senza alcun rappresentanza del loro neo stato afghano – hanno consegnato di fatto il paese ai talebani (tra l’altro anche le armi), sostenuti dal Pakistan. Ci sarà sicuramente da riflettere sulla gestione americana dell’Afghanistan, dalle torri gemelle ad oggi.
In Libia, oggi sul terreno diplomatico, dopo l’ultimo tentativo fallito del maresciallo Haftar di prendere Tripoli, i protagonisti sono più i Turchi e i Russi, che gli Italiani o i Francesi. Si profilano elezioni programmate dal mondo occidentale per fine anno. Lo stesso Haftar corre dietro alla riconquista di una legittimità internazionale, validando il processo delle elezioni caldeggiate dal suo rivale di Tripoli.
In Afghanistan, si profila l’organizzazione di una possibile resistenza, dal numero due di Ghani al figlio di Massud; c’è da scommettere che il fossoyeur della Libia, Bernard Henri Lévy, si farà, insieme a quest’ultimo, presto fotografare.
La lezione viene quindi di non credere che la nascita di un stato non radicato, improvvisato, possa essere una garanzia per l’occidente e per i diritti stessi delle persone.
L’Italia è davanti una sfida quasi epocale della sua diplomazia: paesi che hanno avuto legami stretti con l’Italia, parte della Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia e in fine come già detto la Libia sono in situazione di forte instabilità: conflitti, elezioni, crisi economiche, migratorie… Non bastano le diplomazie dell’ENI o di Leonardo, occorre che l’Italia, paese della cultura degli equilibri possa ritrovare un ruolo da protagonista, lontano da manicheismi distruttori o di soli interessi economici.
L’Italia, alleato fedele degli USA, ha sempre saputo mantenere un legame forte con la Russia. Dispone quindi di una storia diplomatica in grado di potere pensare ad un suo rinascimento, solo se la quotidianità della politica italiana potrà lasciare spazio ad una nostra visione della diplomazia e i principali protagonisti essere all’altezza del ruolo dell’Italia nel mondo.
*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma