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La qualità della giustizia nell’era digitale

È ben difficile in geografia, come in morale, capire il mondo senza uscire di casa propria.

Voltaire

 

Antefatto

Poiché siamo fallibili e limitati, abbiamo bisogno di criteri che ci travalicano e che al contempo siano portatori per noi di un senso. Un senso così denso da generare un ordine appropriato proprio laddove le vite sono diverse, le situazioni diverse, le persone diverse. Un ordine appropriato alla unicità soggettiva che nel soggettivismo non si perda.

Così sarebbe ragionevolmente accettabile esprimere uno dei temi fondativi del pensiero politico che attraversa l’occidente, permea istituzioni e ambiti di autorità, sancendo una ratio decidendi comune a qualsiasi forma di limen posto all’agire dell’uomo. Abbiamo bisogno di criteri. Inoltre, per fare sì che questi ultimi non siano oggetto di “cattura” da parte di una razionalità contingente e angusta, quella dell’interesse particulare, occorre che essi siano capaci di durare nel tempo, in modo da assicurare non solo la loro funzionalità erga omnes, ma anche la loro capacità di operare come meccanismi di generazione di significati, ovvero di interpretazioni accettabili dell’agire collettivo.

Nel corso dell’ultimo ventennio il vento della modernizzazione ha soffiato forte su tutte le articolazioni dello Stato moderno, imponendo una revisione non solo delle modalità con le quali si organizza il lavoro ma anche dei criteri con cui vengono valutate le qualità di quel lavoro e di ciò che esso produce. Non si è trattato, lo si noti, solo di porsi la questione di “efficientare” il sistema. Ridurre la trasformazione delle pubbliche amministrazioni e più in genere delle istituzioni della res publica alla “semplice” promozione di una più alta ratio fra costi e benefici sarebbe parziale, quanto pernicioso. Parziale perché accanto alla questione della efficienza altri valori si sono affacciati – o meglio riaffacciati – sulla scena della narrativa istituzionale e politica in materia di “buon governo”. Fra essi non va dimenticato quello, cruciale, dell’uguaglianza di accesso. Pernicioso perché, se non è una metrica mono-valoriale quella con cui ci si interfaccia, allora la questione di come i diversi metri ossia i diversi valori promossi possano essere coniugati diventa la vera questione delle politiche istituzionali del XX secolo.

Queste considerazioni preliminari assume una particolarmente pregnante importanza per la vita del cittadino e il suo rapporto con le istituzioni nel momento in cui, messi gli occhiali analitici e critici che derivano dalle riflessioni sopra tratteggiate, si osserva l’evoluzione della organizzazione e del funzionamento del sistema Giustizia. L’importanza degli effetti  di sistema è non solo innegabile per ragioni di fatto, ma anche inalienabile per ragioni di principio, nella misura è proprio nella integrazione dell’autonomia della funzione terza con la forza cogente della regola del diritto, le due messe nel contesto dell’organizzazione, che risiede quella garanzia ultima da cui discende e rispetto alla quale si pensa la natura meritevole di fiducia della Giustizia stessa.

L’arrivo della trasformazione digitale su questo complesso sistema ha comportato cambiamenti di segno diverso ma soprattutto si è riflesso in ondate di evoluzione che vanno osservate e valutate nella loro concatenazione al fine di comprenderne il portato per l’ultima istanza valoriale rispetto alla quale misurare la qualità della risposta di Giustizia: i diritti della persona.

 

L’adesso

Le ondate di riforme che si sono rifratte sui perimetri del sistema e che ne hanno aperto le porte ridefinito modi di agire e riorganizzato il funzionamento interno oltre che ridisegnato in modo considerevole l’interfaccia fra interno ed esterno sono state almeno tre: la gestione del lavoro interno agli uffici giudiziari, la digitalizzazione dei contenuti su cui quel lavoro opera e la conseguente creazione di un mondo immateriale di tracce digitali dell’agire calco scritto in zero e uno dei flussi documentali oltre che delle forme di razionalità applicata alla trattazione di significati condivisi – i contenuti dei procedimenti – la remotizzazione e l’introduzione di forme di automazione derivanti dalla applicazione di razionalità computazionali, le due cose essendo legate dall’innesto di forme regolative dell’agire che nascono nel mondo della tecnica.

La risposta data all’irrompere della crisi sanitaria nella vita quotidiana dei palazzi di giustizia ha avuto il merito epistemico di mettere a nudo un potenziale sino a poco prima largamente inesplorato di approfondimento di quelle traiettorie di cambiamento che avevano tratteggiato direzioni senza purtuttavia mostrare appieno quanto a fondo avrebbero potuto obbligarci a ritornare a riflettere su quella idea di partenza da cui la regola ha origine, la fallibilità come condizione antropologica condivisa entro cui ogni forma di agire sociale e quindi anche istituzionale si situa e va compresa.

Le metriche della qualità della Giustizia che ne derivano sono ineludibilmente arricchite. Di arricchimento si tratta e non di deminutio se si accetta che accanto alla pur molto promossa efficienza vi sia anche una necessaria rivalorizzazione di quella logica che in altri tempi e modi pensatori del calibro di Norbert Elias avevano connesso con la apparizione della logica della civiltà. Nelle maniere situando il riflesso pratico di una normatività che è in grado di dirci cosa è accettabile fare dato un certo contesto.

È proprio perché esistono razionalità normative che co-partecipano nella ottimale e fisiologica – dunque resiliente – tenuta di un sistema di giustizia di qualità che vale la pena chiedersi oggi se Lorenzetti non avesse davvero ragione quando per affrontare il tema del buon governo individuava nella co-esistenza e nella co-partecipazione, per le rispettive razionalità e per le rispettive funzioni, di diverse forme di grammatica del fare e del progettare le regole, composte in un sistema la cui chiave di volta non può che essere il bilanciamento e l’equilibrio, in una ottica di continuo apprendimento e di crescita culturale.

Perché tratteggiare un nesso logico ma anche e soprattutto pratico fra normatività plurali buon governo dei sistemi di giustizia e trasformazione digitale? Perché la concomitanza della promessa fatta dalla innovazione digitale – che va nella direzione di una governance centrata sulla razionalità e sulla metrica dell’efficienza con la impegnativa e delicata agenda di riforme del sistema giustizia su cui sono oggi impegnate le istituzioni deve indurci a pensare a quale metrica si intenda adottare per misura la qualità della giustizia del domani – verso la quale tutti gli strumenti di cambiamento, normativi, organizzativi e tecnologici devono tendere. Tale metrica è la metrica del buon governo fondato sulla pluralità delle razionalità che generano un ordine nelle azioni, da quella giuridico formale a quella di carattere tecnologico-digitale, sapendo che a nessuna di queste razionalità può essere chiesto di esaurire – isolatamente – l’insieme delle funzioni che si necessitano siano esemplificate in un sistema di giustizia di qualità duratura.

Si torni dunque al buon governo. È sull’aggettivo buono che dobbiamo oggi concentrarci. Perché di governare, governance e similia ci siamo molto occupati. Ma sulla nozione di “buono” occorre proprio concentrarsi. Buono non è moralmente buono, foriero di una nozione etica dello Stato. Buono è un giudizio che attiene alla capacità di un insieme di meccanismi istituzionali che fanno le regole le applicano le monitorano e le rivedono di essere capace mentre appunto svolge la sua funzione o meglio le sue funzioni di generare quella legittimazione sostanziale che deve accompagnare la legittimazione formale assicurata dal mandato costituzionale e dalla struttura ordinamentale delle articolazioni dello Stato.

Non è un caso che venga in mente questo tema quando si parla di riforma della giustizia. La funzione giustizia è molto più della funzione giudiziaria ma di questa si nutre in via maestra e naturalmente dal buon funzionamento della funzione giudiziaria deriva larga parte della sua capacità di rispondere alla domanda di giustizia dei cittadini. Come fare? Almeno due principi dobbiamo seguirli.

Il primo. La funzione giudiziaria funziona bene se funzionano bene le altre funzioni dello Stato. Aspettarsi di sanare i problemi della magistratura senza pensarla nel contesto del sistema di equilibrio fra poteri è un non sense. Ma se è così allora la polarizzazione è da evitarsi come un male estremo. Qualora avessimo anche assicurato la cura immediata dei mali di una funzione avremmo condannato per il futuro il funzionamento dell’intero sistema se non avessimo operato in una prospettiva di sano equilibrio e coesistenza, il che necessita una precondizione di capacità di dialogo e al contempo di autonomia del giudizio. Come fare? Innanzitutto, con la qualità delle persone, la trasparenza delle scelte e soprattutto con la assegnazione alla politica del suo ruolo principale. Se politica è esercizio di potere allora nessuna forma di automazione di una razionalità politica potrà mai costruire il buon governo. Perché ne svuoterebbe il senso o più gravemente sposterebbe le scelte altrove e magari in luoghi anche meno trasparenti di quanto non sia possibile e richiesto nei loci decisionali dove il potere è assegnato per mandato costituzionale. Più appropriato è invece il governo che comprende anche la razionalità della tecnica ma la rende parte di un equilibrato e bilanciato insieme di razionalità da cui emanano normatività diverse. Fra loro responsabilmente dialoganti.

Il secondo. La proporzionalità in una ottica temporale. Pensare di adottare misure draconiane oggi per risolvere nella urgenza demagogica ogni problema senza invece porsi nella prospettiva di costruire precondizioni per il buon funzionamento del futuro è quantomeno sul piano fattuale insostenibile e forse discutibile sul piano valoriale. Di più, quali obiettivi si perseguono? Perché occorre bilanciarne diversi e la proporzionalità va pensata rispetto a ciascuno di essi e nel loro bilanciamento. Citiamone due. Un obiettivo è quello della risposta tempestiva alla domanda di giustizia l’altro obiettivo è quello della risposta di qualità che tratti ogni diritto come assoluto. Nella loro assolutezza inconciliabili, ma se visti in prospettiva dinamica e sottoposti ad una razionalità conciliativa – perché la giustizia è conciliazione, non può essere che così – allora diventano addirittura l’uno precondizione dell’altro.

Insomma, la metrica della qualità della giustizia dovrebbe essere pensata e realizzata – ma soprattutto descritta nei media – avendo ben presente il meraviglioso e lirico fraseggio di Eliot: dove “Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nella informazione?”.

A che in una società digitale, con moltissima informazione, non si perda strada facendo la saggezza che ci serve per metterne la lettura e la comprensione al servizio di principi capaci di durare nel tempo.

*Daniela Piana

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