I– L’errore più consueto tra gli intellettuali di ogni tempo e schieramento è quello di voler insegnare ai politici ciò che dovrebbero fare, come agire, quali fini perseguire e semmai anche il nome da scegliere per il proprio partito. Sul Corriere della Sera del 29 marzo 2021 si può leggere un editoriale a firma di Ernesto Galli della Loggia (La destra moderna che serve) che sembra ripetere l’errore, anche se in questo caso l’errore è voluto, trattandosi, in fondo, più di una garbata provocazione nascosta dietro un auspicio, etichettato addirittura come utopico, che del solito forbito ma incomprensibile pastone di ricette (“bisogna che”, “si deve”) del professore ‘onnisciente’ che vorrebbe ergersi a consigliere del principe. In un passato nemmeno tanto lontano ricordo almeno uno di questi intellettuali esperti di pratiche politiche altrui, subito rientrato all’ovile (leggi: università) senza essere stato minimamente toccato dalla gloria del campo di battaglia.
Nel caso in questione non si tratta di un ‘consigliere del principe’, ma appunto di un intellettuale che ritiene doveroso, e non solo per riempire qualche colonna di piombo di quotidiano, dire la sua su ciò che potrebbe e dovrebbe essere la destra ai giorni d’oggi, la “destra che serve”, per l’appunto, come la definisce Galli, una destra “moderna”, della quale sembra suggerire anche il nome: PCI, Partito conservatore italiano. Per la verità di partiti che hanno l’aggettivo ‘conservatore’ addirittura nel nome non ce ne sono molti in giro per il mondo ‘moderno’, eccezion fatta per lo storico Conservative – and Unionist – Party britannico e un poco noto partito americano che in realtà è solo un ‘pensatoio’ dentro il Partito Repubblicano. Va anche detto che i conservatori britannici sono più conosciuti come ‘Tories’ e quelli americani senz’altro come repubblicani. Il termine conservatore è riservato alle posizioni ideali, alla filosofia politica che si professa e diciamo pure alla ideologia che si difende, un’ideologia che oramai assai più negli Usa che nel Regno Unito resta formalmente legata alle sue premesse d’origine, ovvero “il trono e l’altare”, non necessariamente un trono assolutistico o un altare fondamentalistico (in Gran Bretagna il laicismo ha preso buona parte dei conservatori britannici nonostante il fatto che la religione del paese è molto legata alle istituzioni politiche, essendo Sua Maestà il capo della Chiesa anglicana).
E qui mi piace ricordare che proprio un filosofo inglese tra i massimi del Novecento, considerato di regola un conservatore (ma su ciò altrove ho espresso i miei dubbi[1]), scrisse a metà degli anni Cinquanta un saggio (ora pubblicato anche in italiano[2]) intitolato On being conservative (Sull’essere conservatori). Quando Michael Oakeshott, questo il nome del filosofo inglese (1901-1990), inviò per la pubblicazione il manoscritto a Irving Kristol, direttore di Encounter, una delle più note riviste conservatrici americane del tempo, questi lo respinse con una semplice argomentazione: nell’articolo mancava ogni riferimento alla religione, che per un “vero conservatore” americano costituiva il fondamento naturale e obbligato del conservatorismo. In effetti, era proprio così e ciò non a caso, perché il (presunto) conservatorismo di Oakeshott (idolo della destra inglese prima di Roger Scruton) non conosceva la religione e i suoi dogmi come presupposto necessario dell’essere conservatori, cui attribuiva piuttosto l’opportunità di un sano scetticismo filosofico.
Il saggio di Oakeshott delineava in effetti non il conservatorismo, ma i tratti dell’essere conservatori, lo stile, la propensione ad agire ‘en conservateur’ più che il propugnare gli stilemi di un pensiero che dal suo punto di vista faceva parte, in ultima istanza, di un tipo di politica che in sé non si distingueva da quella apparentemente opposta: l’essere entrambi, il ‘conservatorismo’ e il ‘progressismo’, politiche della fede, cioè fondate su quella che Max Weber chiamerebbe etica della convinzione. Alla politica della fede egli contrapponeva la politica dello scetticismo, in realtà entrambi tipi ideali di azione, che nella concreta realtà storica dovevano affrontare inevitabilmente le rispettive nemesi, essendo di tanto in tanto necessari anche per lo scettico un po’ di fede e per il credente un po’ di scetticismo[3].
Il discrimine stava nella opposizione tra ‘stile conservatore’, modo d’essere conservatore, e ideologismo, dove ideologico è necessariamente anche il conservatorismo, nella misura in cui, appunto, non è solo uno stile di vita, una condotta quotidiana e un modo di pensare e di agire, ma un insieme di dogmi, compresi quelli religiosi, ai quali assimilava i dogmi del progressismo, che guarda solo ad un ‘futuro migliore’ più che al duro ma spesso anche gratificante presente, un presente che non a caso impone obblighi e non cert utopie. In altri termini, se Oakeshott a Londra votava ‘conservative’ questo non significava che non avrebbe preferito un partito con un nome diverso, più pragmaticamente orientato verso le scelte ragionevoli e rispettose dell’ordinato andamento della vita politica secondo le regole del diritto; essendo però il suo stile di vita quello sì scetticamente conservatore (tra corse dei cavalli, libri e belle donne), non avrebbe mai proposto ai Tories che ogni tanto era costretto a frequentare (la Thatcher voleva farlo baronetto, ma garbatamente Oakeshott rifiutò l’onore di essere associato ai Beatles) cambiare il nome al Partito conservatore sarebbe stato un inutile e superfluo cambiamento.
II– Questa premessa per dire che suggerire al partito “Fratelli d’Italia” di diventare un “moderno partito conservatore” è un suggerimento discutibile per molte ragioni, alcune delle quali cercherò di argomentare in questa sede, indipendentemente dal fatto che poi ‘consigliare’ il principe qualcosa è sempre la volta buona che il consigliere perda la testa, cosa che nel caso di Galli della Loggia non vale non essendo, né volendo egli essere, il consigliere di Giorgia Meloni. Ma un suggeritore questo sì e i suoi suggerimenti – distinti quindi dai ‘consigli’ – vanno presi sul serio perché tutt’altro d’occasione e forse potrebbero rappresentare l’opportunità per una riflessione ad ampio spettro sulla destra oggi, o, se si vuole, sulle destre oggi.
Galli, infatti, di destre italiane ne individua almeno tre: liberali, populisti e questa cosa in divenire che sarebbe a suo avviso “Fratelli d’Italia”, la cui politica dovrebbe far perno sullo Stato nell’età della globalizzazione al fine di rafforzare coesione sociale e solidarietà. Fin qui la cosa ha senso e giustamente la Meloni ha fatto subito presente (cfr. il Corriere della Sera del 30 marzo 2021: La destra moderna che già c’è) che è proprio ciò che lei fa in Europa e in Italia: difendere l’interesse nazionale italiano contro la finanza globalista e quindi lavorare per la coesione e la solidarietà entro i confini nazionali, da buona patriota. Persino diventare conservatore non avrebbe senso, in quanto è già persino Presidente del raggruppamento dei “conservatori e riformisti europei”, anche se l’unico partito che si dichiara conservatore, dopo l’abbandono dei britannici, è un piccolo partito croato.
Ora l’interrogativo fondamentale che va posto dopo l’intervento di Galli della Loggia è questo: ha senso essere ‘conservatori’ per differenziarsi dai populisti e dai liberali? Come ho già accennato, il conservatorismo è un’ideologia, che può avere molte facce, ma resta un’ideologia ed è certamente a quella cui si pensa di regola quando se ne parla, un’ideologia che in quanto tale non è a mio avviso compatibile con la natura della politica della destra di cui oggi si ha veramente bisogno: una destra che difenda l’interesse nazionale e prenda le mosse da questo come bussola del proprio agire[4] va considerata non come una opzione ideologica, bensì come l’essenza, il nòcciolo, la dimensione propria e autentica del Politico, specificamente di un Politico di destra (nel senso che sta dall’altra parte rispetto alla ‘sinistra’ europeista, mondialista, giusmoralista, buonista). Se il Politico ha una natura polemica, nel senso del conflitto e del rapporto amico/nemico, l’interesse nazionale non è una possibilità tra altre del fare politica secondo i criteri del Politico, ma la forma naturale, spontanea e direi dovuta del Politico in quanto tale. In altri termini, essere conservatori nel senso di un ‘pensiero’ conservatore, non solo non sarebbe consono con uno stile conservatore, ma contravverrebbe ai canoni propri del Politico, che si fonda sul principio della autonomia del Politico in quanto tale, che non è riducibile né all’economico né alla morale né al giuridico. Essere conservatori dal punto di vista ideologico non si addice ad un partito di destra che accetti di essere un movimento squisitamente politico, che all’ideologia e ai suoi ineludibili pregiudizi preferisce l’opportunismo necessario dettato dalla obbedienza ai criteri della autonomia del Politico, una dimensione dell’esistenza che ha i suoi propri diritti e privilegi e naturalmente i suoi obblighi.
Diventare un ‘moderno partito conservatore’, nel momento in cui il conservatorismo è oggettivamente in crisi (giudizio che nulla ha a che fare con i pregi assolutamente possibili degli ideali del ‘conservatorismo’) e soprattutto nel momento in cui le sue premesse classiche, ovvero il nesso con certi dogmi religiosi, non trovano rispondenza nel sentimento popolare, sarebbe a mio avviso un errore politico, così come errore politico sarebbe quello di separarsi in quanto presuntamente ‘conservatori’ sia da ogni forma di liberalismo sia dal cosiddetto ‘populismo’. Per tacere del fatto che modernità e conservatorismo non è che si associno tra loro molto felicemente, se si ricorda che una certa ideologia conservatrice si è individuata come tale proprio contro il Moderno e le sue categorie, a partire dall’ideologia dei diritti e della sovranità dell’individuo.
III. – Una destra ‘moderna’ che lotti per la coesione sociale e la solidarietà e rimetta al centro lo Stato può oggi essere considerata come ipso facto il contrario del liberalismo e del populismo? Occorre naturalmente accordarsi sul senso delle parole (la grande rivoluzione propugnata da Confucio era non a caso la “rettificazione dei termini”). Personalmente reputo che il liberalismo di un Marco Minghetti dopo l’unità d’Italia fosse un tipo di liberalismo (certo di tipo conservatore, lo definiremmo oggi), centrato sul senso dello Stato e contro le derive di parte, ovvero dei partiti, nell’amministrazione del potere, di cui oggi avremmo assoluto bisogno. Essendo forse tra i pochi giuristi che da sempre sostengono la non perenzione del concetto di Stato, insieme a quelli classici della filosofia politica, in primis quello di sovranità[5] (comunque ben distinto dal termine, a mio avviso ambiguo, di ‘sovranismo’), dovrei rallegrarmi del fatto che Galli della Loggia metta al centro delle sue proposte proprio lo Stato, anche se andrebbe ricordato il fatto che il liberalismo italiano, almeno quello classico di Minghetti, proprio nello Stato aveva visto una via di tutela delle libertà private e dell’interesse nazionale contro le derive partitocratiche, sicché rinunciare a priori all’idea di un collegamento almeno tra la tradizione di un certo liberalismo italiano, di impronta nazionale (omologo, direi, al liberalismo nazionale di un Max Weber in Germania), e la rivendicazione dell’interesse nazionale e della centralità dello Stato in nome della sovranità politica, costituirebbe a mio avviso esattamente una deminutio per il tipo di destra di cui oggi l’Italia ha bisogno.
Il liberalismo non è solo l’ideologia liberale che dubita dello Stato e della politica in nome del mercato autoregolato (non solo un’utopia, ma storicamente una catastrofe), ma anche una certa prassi politica fondata sull’idea di rule of law che si colloca ancora oggi a destra e che merita di essere valorizzata in quanto tale. Il liberalismo di “Forza Italia” dal quale la destra della Meloni dovrebbe distinguersi è un liberalismo molto sui generis (del resto quando tutti sono liberali nessuno lo è più), uno tra i tanti, che spesso di liberale sembra avere poco, se non per quel sospetto dello Stato e per lo Stato (si ricordi il famoso “teatrino della politica” di Berlusconi, in fondo esso stesso una premessa della successiva, finta antipolitica di Grillo) che è proprio della cattiva ideologia liberale, dalla quale una destra politica nazionale deve saper distinguersi, così come dal conservatorismo.
Se, dunque, la destra politica dovrebbe non essere conservatrice se non nello stile dei suoi esponenti, essere sia pure in parte liberale riallacciandosi alla tradizione del miglior liberalismo italiano, dovrà almeno distinguersi dal populismo della Lega o di chiunque altro faccia pratica di ‘populismo’? Anche qui non credo che i suggerimenti di Galli della Loggia vadano nel senso giusto (ma la discussione è aperta). Se indubbiamente destra significa ritorno dello Stato, che cosa si deve intendere oggi per ‘Stato’? Discorso troppo complesso e scientificamente condizionato per essere affrontato qui; mi limito però a sottolineare il fatto che lo Stato, anche lo Stato che conosciamo in quanto apparato-macchina proprio della modernità, espressione massima dello jus publicum europaeum, ha senso sempre e solo in quanto istituto fornito sia di legalità (rule of law) sia di legittimità; ora questa legittimità è data non dai salotti di una certa ‘intellighentzia’ – che possono ‘legittimare’ solo nuovi e astratti diritti dell’uomo –, ma proprio e solo dal ‘popolo’. Contrapporre la destra che dovrebbe essere ‘moderna’ e ‘conservatrice’ al populismo significa dimenticare che la tradizione tipicamente italiana del Politico guarda al senso romano dell’autorità che qualifica legittimo lo Stato, tradizione che altro non era che il Senato e il Popolo di Roma. Una destra all’altezza del tempo storico presente ha l’obbligo di riprendere esattamente quel simbolo, che tiene insieme popolo ed autorità. Una destra ‘moderna’ (dove poi ci si dovrebbe domandare: perché moderna? di quale ‘modernità’?), o, meglio, politicamente attrezzata deve essere per il popolo e per l’autorità che lo difende e ne garantisce l’interesse. Se questo è populismo, la destra non può non essere – anche – populista. Tanto più, va detto, che il populismo è un generico atteggiamento, più che una ideologia, e certamente ha in sé la premessa e il fondamento legittimante di ogni azione politica, a patto, ovviamente, che non venga ridotto a, o confuso con, la demagogia (il M5s non è populista, per esempio, ma puramente demagogico).
IV– Del resto ‘Stato’ richiama necessariamente il popolo, altrimenti il concetto di Stato rischia di restare impigliato in quello di nazione, che è una categoria importante, ma storicamente determinata. Se si vuole mettere l’accento sulla Patria e sul patriottismo sarebbe anche importante sottolineare il fatto che ‘Patria’ è un concetto più concreto di ‘nazione’. Sarebbe del resto importante per una destra del XXI secolo riflettere sulle origini del concetto di nazione, che sono a ‘sinistra’, non a ‘destra’: la nazione è il fulcro dell’ideologia robespierrista: la nazione, la virtù, il terrore, in altri termini espressione – almeno inizialmente – di quell’astratto che caratterizza il Moderno e contro il quale il Politico dovrebbe agire in nome dei privilegi del concreto, sia questo l’individuo o la comunità.
Non è un caso che la sinistra, la sinistra dei diritti, dell’umanità, dello ‘Stato di diritto’ dei Trattati europei, della ‘democrazia’ al servizio della finanza, abbia dimenticato completamente il popolo (lo ricordate il ‘popolo lavoratore’ dei comizi comunisti?) a favore dei diritti degli immigrati, degli omosessuali e della competizione economica funzionale al mercato mondiale. Certo, come ‘nazione’ anche ‘popolo’ può essere un concetto astratto, ma se dico popolo italiano o spagnolo mi avvicino a qualcosa di più storicamente determinato, che non a caso suscita immagini rappresentative a volte di stereotipi, spesso di realtà esistenti. La destra deve essere dunque per lo Stato, per uno Stato politico che sia espressione del popolo e miri a tutelarne l’interesse. Bene, ma proprio qui si pone subito un altro problema: la forma di Stato di cui questa nuova destra dovrebbe farsi carico. ‘Stato’ è diventato infatti in sé un termine troppo generico e ambiguo nell’epoca globalista della presunta e decantata “morte dello Stato”, che in realtà è il trionfo delle astrazioni: il denaro, i diritti, il mercato.
L’attenzione al concreto implica necessariamente non solo lo sguardo critico ma attento verso l’alto, verso l’Europa, ma anche un’attenzione nuova alle autonomie territoriali, nella misura in cui siano premesse di una vera e funzionale responsabilizzazione delle periferie. Una destra politica è una destra federalista. Guai a immaginare lo Stato forte e autorevole come uno Stato centralizzato o centralista. Molti difetti dell’ordinamento italiano a partire dall’unità stanno tutti proprio nell’aver rifiutato il modello federale ed essersi appiattiti su un ‘piemontesismo’ burocratico, alle origini di tutti i mali italici. Federalismo non significa quello che è stato spacciato per tale dalla Lega di Bossi, rispetto alla quale andrebbe appunto rialzata, troppo rapidamente e malamente abbandonata dai suoi eredi, la bandiera del federalismo, che al contrario è unità (foedus, appunto) e non divisione, messa in comune delle energie diverse che tali devono essere considerate e conservate, come patrimonio tipico delle ‘nazioni’ stesse, da questo punto di vista intese come contenitori di differenze (chi sa la storia – che la destra deve difendere oggi più che ieri – non conosce solo i ‘tedeschi’, ma anche il prussiano e il bavarese, l’hannoveriano – dove si parla il tedesco più ‘puro’ – e il francone, non solo i francesi ma il normanno e il provenzale, non solo gli italiani ma il pugliese e il lombardo, il veneto e il siciliano). Nella sua replica Giorgia Meloni ha citato Roger Scruton a proposito del patriottismo, ma la Heimat, per usare il termine tedesco, che non è immediatamente il Vaterland, è sempre maledettamente concreta, si riferisce alla comunità direttamente e immediatamente conosciuta, vissuta e vivibile: si parte sempre dal piccolo, come insegna l’idea di sussidiarietà della dottrina sociale cattolica. Solo una forma federale dello Stato (una volta stabilito bene cosa deve intendersi per ‘federalismo’) può essere la base di una forte autorità centrale, rispettosa delle autonomie ma anche delle isonomie necessarie (ben al di là dei formalistici “livelli essenziali di prestazione” del Titolo V della nostra costituzione). Può trattarsi di presidenzialismo, di cancellierato, di premierato, ma ciò che deve caratterizzare la destra è sempre il concreto, il determinato, il ‘confinabile’ entro uno sguardo in grado di dominare l’orizzonte, non di perdersi romanticamente al di là della linea.
V– La grande contrapposizione polemica del Politico nel XXI secolo resta quella classica della modernità: la contrapposizione tra chi è per l’essere e chi è per il dover (essere), chi è per il governo politico del presente e chi è per l’organizzazione utopica del futuro. Questa contrapposizione è secondo me assai più essenziale di ogni altra: chi (anche quando pensa di essere di sinistra) guarda umilmente e rispettosamente alla cose che sono e che sono state è di destra, o come altrimenti si voglia chiamare questo ‘luogo’, e il suo atteggiamento è effettivamente ‘conservatore’ perché non vuole buttar giù le statue di Colombo, di Robert E. Lee e di Churchill o finanche di Dante, ma vuole conoscere e capire la storia e il proprio passato.
Tanto più questo è vero oggi, in un’epoca di capitalismo finanziario assoluto. Quando si parla di ‘globalizzazione’ è un errore pensare solo alla Cina e ai fenomeni di immigrazione selvaggia, perché questi sono un epifenomeno rispetto al dato fondamentale rappresentato dalla totale ‘virtualizzazione’ del mondo e dei rapporti umani, che sarà accentuato nei prossimi anni a causa della pandemia (lasciate stare i discorsi lacrimosi che prevedono per tutti noi una universale e reciproca bontà, il punto è la marcata e disperante separatezza sociale e la crescente pauperizzazione generalizzata). L’Ottocento fu l’epoca dell’utopia malsana del mercato autoregolato, che subito dopo la grande guerra produsse le necessarie reazioni ‘sostanzialistiche’ all’idea di un mondo puramente ‘funzionalistico’: il comunismo sovietico, il fascismo italiano, il nazismo tedesco, ma anche – cosa che molti dimenticano – il New Deal americano di Roosevelt. La seconda metà del Novecento ha gradualmente prodotto, anche in virtù della rivoluzione informatica, una ulteriore ‘virtualizzazione’ del modo di produzione e una liquefazione dei rapporti sociali, che sta lasciando fuori dal mercato del lavoro nuove fasce della popolazione. Il rischio è che la fase puramente finanziaria del modo di produzione capitalistico produca alla fine una nuova forma di reazione, di cui oggi è difficile cogliere i confini e la natura, ma che potrebbe essere violenta e tirannica.
Nell’epoca del capitalismo finanziario (in verità ne aveva parlato già Hilferding a inizio Novecento), o forse della finanza capitalistica globalizzata, lontana mille miglia dalla base aurea che ancora nell’Ottocento mitigava le pretese del monetarismo, si tratta preliminarmente di capire dove materialmente si sono collocate e perché le forze politiche o presunte tali. Un indizio significativo è il rapporto con l’Unione europea. Perché la ‘sinistra’ è così cocciutamente europeista? In altri termini, più concreti: chi sono i padroni del mondo e chi sono i loro servitori? Quali sono le politiche funzionali agli interessi dei padroni del mondo, almeno del mondo occidentale? Non vi è dubbio che il liberalismo del laissez-faire, o meglio il liberalismo del “mercato libero e non falsato” (citazione dal fallito Trattato per una costituzione europea) è l’ideologia funzionale ai padroni attuali. Ma questa politica non è solo né tanto il liberalismo di destra cui accenna Galli della Loggia, quanto il liberalismo della sinistra, che è diventata il luogo eletto degli interessi padronali, come si sarebbe detto un tempo, ovvero della finanza globale. Non è certo un caso che molti capitalisti prosperino nel cosiddetto Partito democratico o che certi ex-comunisti pratichino il profitto sulla via della seta divertendosi a fare gli ‘industriali’.
La verità è che le vecchie opposizioni non reggono più: la difesa del libero mercato era una volta di destra, oggi è appannaggio della sinistra in nome dell’umanitarismo mondialista. Certo, il libero mercato, se regolato, resta una pratica della “destra”, ma anche di una certa sinistra che oggi appare utopista, sicché non è facile, partendo dalla ‘struttura’, avere una ‘sovrastruttura’ omogenea ai fondamenti materiali. Il mondo si è girato e occorre prenderne atto, pur considerando prioritariamente che restano comunque in piedi alcune dimensioni ontiche dell’esistere, a partire dalla dimensione conflittuale del criterio del Politico.
La mia difesa dello Stato si è sempre accompagnata con la consapevolezza che se la morte dello Stato era una ipocrita scusa per fare gli interessi della finanza mondiale, al tempo stesso va detto che lo Stato-nazione dell’Ottocento e della prima metà del Novecento è oggettivamente in crisi, da intendere però più nel senso di una trasformazione che di una dissoluzione. Da questo punto di vista non ho mai accolto la previsione di Carl Schmitt sulla fine dello Stato quale espressione storicamente determinata del Politico. Sarebbe tuttavia dimostrazione di miopia non cogliere il dato oggettivo della crescente dipendenza degli Stati da una contingenza mondiale che determina una riduzione degli spazi di autonomia dei singoli Stati-nazione. È un errore assolutizzare una fase storica determinata e non cogliere l’elemento ultra-nazionale che ha caratterizzato gli Stati in passato e caratterizza oggi gli Stati più rilevanti dal punto di vista geopolitico: non è un semplice Stato-nazione la Russia, né lo sono gli Stati Uniti d’America o la Cina. La stessa Turchia, con la quale fino a non molto tempo fa noi europei avevamo rapporti oscillanti tra guerra e pace, in fondo è una potenza del genere. Voglio dire che un partito di destra che pratichi l’interesse nazionale come sostanza del Politico deve guardare sì allo Stato, ma al tempo stesso al grande spazio (Großraum) che consente una effettiva vitalità sovrana o sovranità vitale a livello mondiale, sia economico sia politico. Un certo scetticismo e relativismo è a mio avviso un modo intelligente di fare politica in questi tempi schiodati, come direbbe Shakespeare, oggi che lo stesso clivage destra/sinistra si è per l’appunto relativizzato (ma lo era già per esempio nella Germania di Weimar) e che paesi deboli come l’Italia si trovano sempre più preda degli interessi altrui[6].
Anche per questo è centrale il rapporto con il progetto di ‘integrazione’ europeo. Contro l’europeismo astratto la destra politica è fautrice di un europeismo concreto, che saldi i legami vitali tra i popoli europei (non esiste un popolo europeo, né al momento una ‘nazione europea’) entro una forte struttura confederale, che salvaguardi un interesse comune e non consideri, come invece fa l’Unione europea, il proprio ordinamento al servizio della pace universale e dei diritti dell’uomo. Una destra all’altezza del nostro tempo storico deve avere l’ardire di contrastare, con piena consapevolezza culturale, l’ideologismo dei diritti dell’uomo le cui carte sono state poste alla base del processo di integrazione, una retorica di stampo teologico che serve solo a nascondere interessi ben più concreti. Non a caso la sinistra più accorta – penso ad un vecchio intellettuale ex-comunista-‘gentiliano’ come Biagio de Giovanni – si rende conto del pericolo di abbandonare il concreto – i ceti medi e più poveri, il lavoro manuale e intellettuale – al dominio dell’astratto: i diritti, l’umanità (“chi dice umanità vuole ingannare”: Proudhon), la pace universale. Così Massimo Cacciari, nel suo recente libro su Weber[7], sottolinea l’esigenza del lavoro intellettuale come premessa per la ricostituzione del Politico nell’epoca dell’impero del capitalismo finanziario: una sorta di nuovo ‘cervello sociale’ alternativo.
Non che i diritti dei singoli non debbano essere difesi, ma nella misura in cui essi, tutelati da uno Stato autorevole e forte, siano il corrispettivo di obblighi. Ecco un altro lemma fondamentale per un partito di destra politicamente responsabile: il dovere, l’obbligo, come fondamento dei diritti, donde il primato del sociale rispetto all’atomismo individualistico. Da questo punto di vista la destra politica di oggi è ancora la migliore ‘destra’ quale già fu in passato, la destra che nel ‘liberalismo’ (quello nato a sinistra, non quello di Minghetti) vedeva la frantumazione dell’organico, ma anche dello stesso individuo, come appare con evidenza nel ribollente laboratorio della modernità rappresentato dalla cultura viennese tra Otto e Novecento. Ovviamente non si tratta di trovare la verità in questo o quel filosofo e tanto meno in qualche cosiddetto ‘scienziato della politica’. La verità sta nell’occasione, nel saper afferrare la domanda che il tempo storico pone al politico. Il Politico sta prima, assai prima, del clivage destra/sinistra, “conservatore”/“progressista”.
[1] Cfr. A. Carrino, Michael Oakeshott filosofo dello scetticismo: liberale o conservatore?, in corso di stampa in Nuova storia contemporanea, 2021.
[2] M. Oakeshott, Sull’essere conservatori, (1956), in Id., Razionalismo in politica e altri saggi, trad. it. a cura di G. Giorgini, Milano, IBLLibri, 2021.
[3] Cfr. M. Oakeshott, La politica moderna tra scetticismo e fede, trad. it. a cura di A. Carrino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013.
[4] È quanto ho scritto anche nel Rapporto sull’interesse nazionale della Fondazione Farefuturo.
[5] Cfr. A. Carrino, Il problema della sovranità nell’età della globalizzazione. Da Kelsen allo Stato-mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.
[6] Cfr. gli articoli in Limes 2/2021: L’Italia di fronte al caos.
[7] M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Milano, Adelphi, 2020, su cui cfr. A. Carrino, L’altro impero. Max Weber e il lavoro intellettuale come professione, in Lo Stato, 15/2020, pp. 479-492.