Charta Minuta

L’ARMA NECESSARIA DEL GOLDEN POWER

Questo saggio di Alessandro Aresu, è stato pubblicato sul Rapporto Italia 2020 della Fondazione Farefuturo

 

L’intersezione tra interesse nazionale e golden power può essere approfondita sulla base di tre fattori principali: la «corsa alla sicurezza nazionale» in un’era di intensità tecnologica; il rapporto dell’Italia
con gli altri paesi nelle decisioni di scrutinio degli investimenti; la politica industriale dell’interesse italiano. Ad essi si aggiunge la drammatica emergenza del Covid-19.
In primo luogo, lo scenario globale è caratterizzato dalla corsa alla sicurezza nazionale che influisce sui
processi economici: gli strumenti di controllo degli investimenti, un uso politico più evidente delle istituzioni internazionali da parte di alcuni attori, la politica delle sanzioni. In particolare, le due potenze principali al
mondo praticano il «capitalismo politico».

Nel sistema cinese, il decisore ultimo dei processi economici è il Partito Comunista Cinese, attraverso i piani industriali strategici, le partecipazioni azionarie centrali e locali nelle imprese, la gestione del credito agevolato
e della penetrazione internazionale delle aziende, i rapporti in materia di sicurezza. Se il Partito vuole che un grande imprenditore di immenso successo (per esempio Jack Ma) vada in pensione, egli va in pensione e basta.
Nessuna iniziativa economica privata potrà andare contro il volere del Partito, finché il Partito possiederà il«mandato del cielo».
Nel sistema statunitense, gli investimenti in ricerca e sviluppo del sistema della difesa e la pervasività dell’apparato militare sono elementi cruciali, come la diffusione degli accessi classificati nella popolazione. Senza il legame con difesa e intelligence, che ha anche elementi conflittuali, non si capisce nulla dei giganti digitali statunitensi. L’uomo
più ricco del mondo, Jeff Bezos, si reca al Reagan National Defense Forum per raccontare con ammirazione le passioni missilistiche di suo nonno. Elon Musk può spedire razzi nello spazio e far vedere le sue slide su Marte
solo perché ha ricevuto contratti dalla Nasa. Peter Thiel, il grande sostenitore di Trump della Silicon Valley, ha affermato che Google è colpevole di alto tradimento per la collaborazione con gli apparati militari cinesi.
Il sistema di difesa e sicurezza americano politicizza l’economia, perché l’interesse primario è contrastare la Cina: per esempio, il CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States) nelle sue comunicazioni del 2018 pubblicate dalla Securities and Exchange Commission ha scritto chiaramente che l’acquisizione di Qualcomm da
parte di Broadcom non poteva avvenire perché le capacità cinesi nel 5G ponevano una minaccia agli Stati Uniti.

II. Il conflitto tra Stati Uniti e Cina, in un’epoca di intensità tecnologica, è così profondo da ripercuotersi su
tutti gli altri attori. Il caso Huawei illustra questo processo, con l’escalation sulle accuse rivolte al colosso di Shenzhen da parte di Washington, alle quali corrisponde una comprensibile, ancorché inutile, presa di distanza
dell’azienda dall’aderenza obbligata al Partito Comunista Cinese. I paesi europei sono dunque posta in gioco di questo conflitto, sia per il loro ruolo nell’ascesa internazionale di Huawei (il Regno Unito, a partire dalla
collaborazione con BT sulla rete nel 2005), che per l’importanza degli scambi commerciali (la Germania), nonché per le acquisizioni cinesi su manifattura e tecnologia e per recenti fughe in avanti (l’Italia).

Le decisioni degli Stati europei, e la loro modulazione degli strumenti di controllo degli investimenti, indicano
la necessità di riscoprire il nesso tra la tecnologia e la sicurezza che l’Europa, nella sua lunga vacanza della storia, ha dimenticato. L’adattamento della normativa golden power ha quindi posto – e continuerà a porre in futuro – la
questione dello schieramento dell’Italia nel conflitto tra Pechino e il principale security provider del nostro Paese, Washington.

Un altro aspetto della casistica, fino ad oggi, riguarda la relazione del nostro Paese con la Francia, che dopo la
Brexit è l’unica vera potenza militare europea (oltre naturalmente agli stessi Stati Uniti) e sarà protagonista diogni aggregazione in materia. Il fatto che una normativa nata per sfuggire alle procedure di infrazione europee
sia divenuta un modo per scrutinare le operazioni di membri dell’Unione europea deve farci riflettere, senza ipocrisie. Indica l’irriducibilità della sicurezza nazionale all’ambito europeo. Nel contesto europeo è possibile
l’elaborazione di toolbox, di comuni analisi di rischio (per esempio per quanto riguarda gli investimenti cinesi), ma non può avvenire la decisione ultima sulla sicurezza. Ciò continua, e continuerà, a competere agli Stati: a
Stati che decidono in autonomia, a Stati che non decidono o che fanno decidere agli altri. Il caso TIM-Vivendi ha fornito un’illustrazione di elementi di sicurezza che sono stati ritenuti necessari per presidiare asset che, a
parere di chi scrive, hanno una indiscutibile valenza strategica di sicurezza nazionale per le comunicazioni, sia in riferimento ai cavi sottomarini che per le comunicazioni cifrate. Nel medio termine, sarà utile continuare a
valutare il rapporto tra aziende italiane e aziende francesi caso per caso, senza mettere tutto nello stesso calderone di simpatie o antipatie o senza credere di poter risolvere con un solo provvedimento o con un grande accordo tra leader politici una relazione importante per l’Italia, che presenta diversi elementi di complessità.

Va tenuto presente lo scenario più generale in cui si sviluppano questi rapporti. Viviamo in un contesto in cui i vuoti del multilateralismo sono riempiti dalla logica di potenza, da una promozione assertiva di interessi nazionali, come ha sottolineato Giampiero Massolo. Per quanto concerne gli interessi italiani, la guerra per procura in Libia è la più chiara illustrazione di questo scenario. Su ciò che è essenziale per la nostra sicurezza nell’antiterrorismo e nell’energia, operano paesi disposti a porre sul tavolo una profonda attività di influenza e la forza militare per
conseguire i loro obiettivi. Tra di essi vi è anche un attore mediterraneo con un’ambizione imperiale, la Turchia.

Quest’assertività incontra la ritrosia italiana, che si è sovente concretizzata in un richiamo agli Stati Uniti non lontano da Godot: così, invece di stare al tavolo della forza, si rischia di finire nel menu della forza. Da un lato, ciò
mette in luce l’approccio culturale italiano allo strumento militare e alle operazioni complesse, in un dibattito pubblico che non comprende la centralità della difesa nella sovranità nazionale, che non accetta le coordinate del mondo in cui viviamo, sognandone un altro. Un sogno comprensibile, ancorché inutile.

III. Veniamo alla politica industriale dell’interesse nazionale. Il golden power non è strettamente uno strumento di politica industriale, come ricordano i giuristi, ma le sue applicazioni hanno chiare implicazioni industriali.
A partire dalla scelta dei settori su cui esercitare i poteri. Alcune teorie economiche disdegnano la scelta dei settori, aborrono l’aggettivo «strategico» e indicano una strada di specializzazione produttiva indifferenziata, dettata dalla convenienza del momento. La geopolitica funziona secondo altre categorie: produrre chip di microprocessori non è produrre chip di patatine; produrre occhiali o turbine nucleari non è la stessa cosa; acquisire alberghi non è acquisire sistemi di propulsione. E così via. Ugo Pagano ha recentemente ricordato che la capacità industriale e tecnologica del Paese resta garantita dalla grande impresa a partecipazione pubblica: Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, le imprese energetiche e le loro partecipazioni.

La normativa golden power, determinando e analizzando alcuni ambiti, non costituisce un punto d’arrivo e presenta alcune insidie. Per esempio, l’evoluzione tecnologica porta giocoforza a incertezza normativa, a un
adattamento delle norme alla realtà che può disorientare gli investitori. Soprattutto in un Paese come il nostro che presenta problemi di lungo corso sulla certezza dei tempi, nonché sulla capacità di attrarre e di realizzare
investimenti. Allo stesso tempo, non si può chiedere alla normativa golden power di risolvere problemi sistemici, di migliorare la produttività o il trasferimento tecnologico. O di affrontare, a livello culturale e operativo, l’annoso problema della crescita dimensionale dell’impresa italiana, descritto in termini perfetti da Marcello De Cecco in questi termini: «Noi siamo stati a lungo, e incomprensibilmente continuiamo ad essere, orgogliosi di un tessuto
industriale parcellizzato, quello delle Pmi. Siamo stati così bravi a venderlo – il «capitalismo dal volto umano» e altre scemenze – che anche Clinton veniva a Modena per studiarlo. Salvo poi continuare, loro, a puntare sulla
grande industria. Come si può competere nella globalizzazione con unità produttive da una dozzina di persone?».

Alla luce di queste sfide di fondo, il compito del golden power sta piuttosto nell’individuazione delle minacce e nel presidio dell’esistente, nella determinazione di cosa è necessario proteggere e cosa possiamo anticipare. Credo che il tema dell’anticipazione sarà sempre più rilevante per la nostra sicurezza economica, tecnologica e industriale.

Per esempio, le catene globali del valore non sono creazioni neutre, in cui ogni nodo della rete è equivalente: presentano teste, «cervelli», centri direzionali e parti subordinate, pezzi sacrificabili. La riorganizzazione delle
catene che coinvolgono le imprese italiane ad alto tasso occupazionale (a partire dall’automotive e dall’energia), anche a seguito della transizione energetica in corso, deve essere pertanto uno degli ambiti su cui puntare
l’attenzione. Così come le possibili aggregazioni europee nelle infrastrutture, nella difesa e nelle telecomunicazioni, a seguito dell’emergere di una diversa sensibilità sulla concorrenza.
L’affinamento della normativa golden power corrisponde a una stagione di crescente consapevolezza e dibattito sul tema dell’interesse nazionale e sull’importanza dell’unificazione nazionale. Tuttavia, l’interesse nazionale
non va affidato a un’attenzione intermittente e occasionale, pena il suo stesso indebolimento. La strada operativa dell’interesse nazionale si realizza attraverso un’ampia condivisione politica e attraverso un costante investimento di capitale istituzionale. Per esprimere e salvaguardare l’interesse nazionale, occorre quindi una «macchina degli interessi» adeguata, che sappia trovare stabilità in uno scenario incerto. Anche attraverso un nuovo investimento nel fattore umano. Tra i giuristi che hanno animato il dibattito sul golden power, Roberto Garofoli ha colto un
punto essenziale: la debolezza delle amministrazioni dell’economia nel nostro Paese.

Quanto sono solidi i corpi che si occupano del debito pubblico e delle partecipazioni dello Stato? Quanto sono profonde le competenze
di chi prende le decisioni industriali sulle telecomunicazioni? Questa fragilità è lo specchio della sicurezza economica dell’Italia. Le burocrazie della sicurezza (nazionale, economica, tecnologica), nelle amministrazioni
dello Stato, hanno bisogno di maggiori competenze, pena un’autolimitazione della sovranità: questa è la strada che il rapporto tra interesse nazionale e golden power può indicare.

IV. L’emergenza del Covid-19 non costruisce un mondo radicalmente nuovo e non altera queste dinamiche. Piuttosto, le accelera e le approfondisce. La corsa alla sicurezza nazionale è stata accentuata dalla crescente presenza
della sicurezza sanitaria e della sicurezza pubblica nelle scelte degli Stati, anche influenzando le libertà personali degli individui. La competizione tra le potenze del capitalismo politico, Stati Uniti e Cina, è sotto i nostri occhi,
e coinvolge pienamente il nostro Paese. La struttura delle catene globali del valore è in discussione, attraverso
un processo complicato, che non avrà nulla di automatico. DPI è diventato l’acronimo più celebre del nostro dibattito pubblico, forse più di MES. La disponibilità e l’approvvigionamento dei respiratori ha rappresentato
anche una corsa per il prestigio e l’influenza, fatta di capacità e di organizzazione industriale.
L’adattamento della normativa golden power, in conformità alle richieste avanzate anche dalla comunità degli studiosi del tema, rappresenta oggi un argine rispetto ad alcuni punti di fragilità dell’Italia, anche nel rapporto
con alcuni partner europei.
Eppure, una costante della storia recente d’Italia è la lezione secondo cui le norme non bastano: l’ipernormazione non è un argine per la nostra debolezza. L’intelligence economica deve compiere un passaggio successivo,
colmando un vuoto della cultura dell’impresa italiana, pubblica o privata, che in un mondo sempre più difficile da decifrare si è mossa senza argini, senza occhiali adatti a interpretarlo. Si tratta, per esempio, di studiare la
composizione organizzativa e geopolitica delle catene del valore, comprendere meglio il posizionamento delle
imprese italiane, lavorare in modo produttivo al legame tra il piccolo nucleo di grande impresa rimasta e i fornitori, abbandonare le idee deteriori di indifferenza tra i settori produttivi, distinguere gli interventi predatori
lavorando allo stesso tempo sui fattori di competitività strutturale del Paese. Questi vasti compiti non potranno essere svolti esclusivamente dai servizi per l’informazione e la sicurezza della Repubblica, ma necessitano di una
più ampia consapevolezza diffusa, anche con l’istituzione di corpi dedicati, che doterebbero finalmente l’Italia di un Consiglio per la Sicurezza Nazionale. In particolare, come più volte sostenuto da chi scrive, l’interesse
nazionale dell’Italia è rafforzare il legame tra risparmio e investimento, innestare un circolo virtuoso. Altrimenti anche il risparmio italiano, in un periodo di crescente debolezza per il nostro Paese, sarà preda di qualcun altro.
Analizzare il nesso tra interesse nazionale e golden power, nel tempo del coronavirus, significa perseguire una strada di ricostruzione nazionale. La strada della ricostruzione, della rigenerazione, sarà ancora più difficile
rispetto al passato, perché non è avvenuta una distruzione «visibile» e perché alcuni spazi di formazione e di crescita culturale, come i partiti politici e gli enti intermedi, risultano fortemente indeboliti. Alla luce delle
considerazioni sopra esposte, occorre comunque percorrere questa strada con coraggio e determinazione.

*Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes

Autore