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Le tecnologie e la sfida dell’Italia nel XXI secolo

L’anno appena iniziato può, a tutti gli effetti, rappresentare un momento di svolta per il nostro Paese. La Pandemia che ha funestato il 2020 non è ancora alle nostre spalle ma l’arrivo dei primi vaccini ci può dare la speranza che presto il Covid non farà più paura come negli ultimi mesi. Quello che adesso auspicabilmente dovrebbe succedere, per non perdere un’occasione storica, sarebbe l’apertura di un periodo di riflessione seria da parte di tutte le Istituzioni sul ruolo che l’Italia dovrebbe occupare nei prossimi anni a livello globale. Parlare di come investire le ingenti risorse, che arriveranno dall’Unione Europea, senza avere alla base un chiaro progetto culturale potrebbe significare perdere una delle più importanti opportunità dal dopoguerra per ridare un’anima alla nostra Nazione.

A volte la Cultura, e lo scrivo volutamente con la C maiuscola, è stata considerata come un “peso” nel nostro bilancio economico ma rappresenta, invece, una grandissima opportunità. Gli asset su cui dovremmo puntare nel prossimo futuro saranno proprio Cultura, Turismo e Design, inteso come la capacità di progettare e realizzare oggetti ispirati al principio di bellezza e sostenibilità, ma anche di pensare al di fuori degli schemi con un approccio innovativo (design thinking). Per fare questo, però, dobbiamo prendere atto che la partita più delicata si gioca sul ruolo che lo sviluppo tecnologico avrà sulla nostra evoluzione.

Oggi l’aumento esponenziale dell’utilizzo della tecnologia, fin dagli anni della fanciullezza, ci obbliga a chiederci se il modello culturale attualmente diffuso a livello globale sia quello giusto o se non ci sia il bisogno di crearne uno in grado di contrastarlo e di imporsi come fu per l’umanesimo ed il rinascimento. Già alla fine degli anni ’90 negli Stati Uniti, presso l’Università di Stanford, BJ Fogg cominciò a studiare quella che lui definì Captology (computer as persuasive technologies) cioè l’area di sovrapposizione tra l’evoluzione tecnologica e le tecniche di persuasione. L’intuizione fu geniale e Fogg creò un dipartimento che ottenne molti fondi, pubblici e privati. La diffusione della rete e l’incremento della velocità di accesso ai dati ha rappresentato una grande opportunità di sviluppo di prodotti in grado di “convincerci” a compiere azioni in modo quasi meccanico e superando quella barriera imposta dai nostri meccanismi neurologici che ci portano a riflettere prima di dare una risposta ad un “input” esterno. Prendiamo, ad esempio, la messaggistica istantanea.

Quante volte è capitato di scrivere un messaggio e poi pentirsi di averlo fatto perchè la risposta è stata non riflettuta ? Tante! Infatti è stata introdotta la funzione di cancellazione del messaggio inviato. L’utilizzo continuo di telefoni e tablet sta portando l’essere umano verso una condizione in cui la nostra capacità di pensiero critico sarà sempre più messa in crisi dalla fruizione meccanica di contenuti su cui non saremo più in grado di riflettere. Diventerà, quindi, sempre più “facile” convincerci a pensare in un certo modo, ad agire secondo schemi precostituiti. Se da un lato questo ha portato, sempre da parte di Fogg, alla teorizzazione del “behavior design” cioè di una serie di funzioni in grado di spingerci e convincerci a fare (anche) azioni “virtuose” legate alla salute o all’ambiente, l’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’utilizzo di questi meccanismi non in chiave educativa ma meccanica. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, il proliferare di una tecnologia sempre più pervasiva come quella odierna ed il diffondersi di prodotti mirati ad un target sempre più giovane, basti pensare a Tik Tok, ha avuto come diretta conseguenza un aumento esponenziale della sindrome da mancanza di attenzione (ADHD).

Questa sindrome, con una crescita impressionante nelle nuove generazioni, impedisce di concentrarsi e, di conseguenza, anche di leggere e studiare. Molti scienziati, tra cui i ricercatori della University of Southern California che hanno pubblicato un articolo sulle pagine di Jama, stanno mettendo in stretta relazione l’aumento dell’ADHD ed il tempo trascorso sui social network in età infantile ed adolescenziale. In questo scenario l’Italia potrebbe avere l’opportunità di ritagliarsi, attingendo al suo enorme patrimonio culturale stratificato nei secoli, il ruolo di guida per la proposizione di un modello alternativo in grado di favorire il ritorno ad una cultura umanista in grado di orientare lo sviluppo tecnologico tenendo sempre ferma la centralità dell’essere umano. Si tratta di utilizzare la tecnologia come mezzo e non come fine, facendo riacquistare agli strumenti che ci accompagnano quotidianamente un ruolo educativo, dove all’azione meccanica si contrapponga la necessità di esprimere un pensiero critico. In pratica il “tecnoumanesimo” dovrebbe portarci ad indirizzare tutti i nostri sforzi sulla possibilità di vivere consapevolmente la tecnologia, usandola solo per il bene ed il progresso dell’uomo e non per un fine prettamente commerciale dove l’utente venga visto solo come un numero. La sfida più grande è, quindi, quella di riempire di contenuti etici l’inevitabile progresso tecnologico, che non va in nessun modo demonizzato bensì capito e guidato attraverso una rivoluzione culturale.

Da questo punto di vista la partita più delicata la gioca la politica che deve tornare a riempirsi di contenuti e ritrovare quello slancio che la porti a governare l’economia e non ad esserne governata. La posta in gioco è altissima. Solo dall’Europa, ed in particolare da noi, può nascere una spinta in grado di riproporre un tema come l’umanesimo letto in chiave moderna. Solo dall’incontro tra tradizione culturale e capacità di anticipare gli scenari futuri può nascere una ricetta in grado di sottrarre l’uomo ad una lenta “robotizzazione”. È qualcosa che deve succedere subito e non può essere lasciata a singoli attori, deve tradursi in un lavoro corale che parta da una visione politica e ricada a tutti i livelli della società. Alcune azioni sono già state intraprese, basti pensare alla nascita negli ultimi due anni di molte benefit company che uniscono il profitto ad un ruolo sociale attivo, ma senza una visione complessiva, che attinga dalla nostra storia e dalle nostre radici più profonde, rischiano di rimanere tentativi isolati. Ritornare ad una prassi dove l’educazione dell’essere umano ritorni ad essere il paradigma principale del progresso, dove la capacità di critica sia la base di ogni azione, vorrebbe dire riguadagnare un futuro migliore per le nuove generazioni che non hanno bisogno di uno schermo che gli dica cosa fare ma di qualcuno che insegni loro a giudicare criticamente quello che attraverso quello schermo leggono ed ascoltano.

*Sergio Meschi, marketing manager

 

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