Questo saggio di Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo
Molti, sia in Italia che negli altri Paesi europei, hanno ben accolto il progetto volto alla creazione di una vera e propria difesa a stampo europeo: maggiori collaborazioni industriali e anche politiche, maggiori risorse finanziarie messe a disposizione dall’Ue, meno sprechi e meno duplicazioni in termini di capacità per il settore militare. Insomma, più sicurezza ad un costo (quasi) minore.
Tuttavia, l’ambizioso programma, fortemente supportato anche dal nostro Paese, ha dovuto fare i conti sin da subito con l’aspirazione di alcuni Stati di prenderne le redini e di dettarne le condizioni. Da quello che doveva essere uno sforzo collettivo a livello comunitario, in cui ciascun Membro ha lo stesso peso decisionale, si è celermente passati a una leadership bilaterale franco-tedesca che si è imposta quale nucleo dominante all’interno del progetto. Di fatto, ad un anno dalla firma del Trattato di Aquisgrana, è possibile vedere chiaramente i contorni della strategia di Parigi e di Berlino che pare abbiano deciso di interpretare la difesa Ue come l’occasione più opportuna per rimpiazzare la Gran Bretagna e l’ombrello securitario statunitense in Europa.
Seppure le intenzioni siano buone e in linea con le esigenze dell’Ue, ovvero assicurare all’Europa l’autonomia strategica, i due Paesi, forti del proprio peso politico, economico e militare nell’Unione, hanno preso il comando del progetto con buona pace degli altri Stati membri. La firma del citato Trattato di Aquisgrana, nel gennaio 2019, ha segnato la formalizzazione di un nuovo asse franco-tedesco che, tra i vari settori, annovera anche e soprattutto quello della difesa.
Si tratta di un accordo anzitutto politico, che ha l’obiettivo di presentare come una visione unitaria le posizioni francesi e tedesche. In pratica, i due Paesi hanno deciso di incontrarsi prima di ogni vertice Ue di rilievo per definire congiuntamente le proprie intenzioni, principalmente su temi di politica estera, difesa, sicurezza esterna e interna e sviluppo. Trattasi, quindi, di un graduale percorso finalizzato a incrementare la convergenza di interessi, obiettivi e strategie e, come evidenziato nel documento stesso, a rafforzare i sistemi di sicurezza collettiva (ossia il progetto di Difesa Ue) di cui Parigi e Berlino fanno parte. Inoltre, i due Paesi si sono impegnati in una costante e crescente collaborazione nel settore difesa, sia tra le Forze Armate per sostenere lo sviluppo di una cultura militare comune e dispiegamenti congiunti sia tra le rispettive industrie per la difesa, allo scopo di aumentare il proprio livello di competitività. L’apice della cooperazione viene raggiunto 231 con una clausola che prevede la reciproca difesa militare in caso di attacco armato in uno dei due Paesi, molto simile all’articolo 5 del trattato istitutivo della Nato.
A ben vedere, è stata creata in Europa una nuova forte alleanza che da un lato può andare a rafforzare la posizione europea nei teatri internazionali, dall’altro va quasi a nullificare o perlomeno a ridimensionare i tentativi di collaborazione militare veramente comunitari da poco inaugurati in sede Ue. Di fatto, nel ventaglio di progetti approvati nell’ambito della Collaborazione Strutturata Permanente (PESCO), Parigi e Belino sono non solo presenti nella maggior parte dei programmi, ma ne detengono il ruolo di leader per molti di essi.
Se tra i vari obiettivi della PESCO vi è anche dare la possibilità a Stati con industrie per la difesa meno consolidate di ricoprire un ruolo di rilievo, la quasi onnipresenza delle forti aziende francesi e tedesche va a minacciare la buona riuscita di tale intenzione. In aggiunta, quello creato da Macron e dalla Merkel è un club esclusivo le cui iscrizioni non sono aperte. Ne è un chiaro esempio il programma per lo sviluppo della caccia multiruolo di sesta generazione. Il prototipo franco-tedesco non può di certo definirsi europeo: tutte le decisioni strategiche in merito sono già state prese e la gran parte del budget proviene da Parigi e Berlino.
A chi si volesse aggregare è riservato un ruolo ancillare, come nel caso della Spagna. Quindi, l’Europa si trova ora ad avere ben due programmi per il nuovo caccia (quello franco-tedesco, per l’appunto, e quello inglese a cui partecipano anche l’Italia e la Svezia) nonostante gli sforzi e l’impegno collaborativo incoraggiati dall’Unione. In tale scenario, dove la Difesa europea cerca di formarsi tra un timido spirito comunitario e una crescente predominanza franco-tedesca, spetta agli Stati membri decidere se riprendere le redini del progetto o farlo decadere. Se una decisione in tal senso non venisse presto presa, l’Ue potrebbe incorrere in due rischi principali.
Internamente, si potrebbe venire a creare un fenomeno di progressiva erosione della collaborazione comunitaria in favore di parallele alleanze tra Paesi membri all’insegna della competitività anziché dell’efficienza. Al contempo, esternamente l’Ue potrebbe perdere credibilità nel settore militare agli occhi del resto del mondo. In questo contesto, l’Italia si trova davanti a un bivio: continuare a prendere attivamente parte di una difesa più franco-tedesca che europea o avvicinarsi gradualmente all’attore chiave negli equilibri transatlantici, ovvero la Gran Bretagna.
Un iniziale entusiasmo italiano circa la PESCO e il più ampio quadro Ue in cui è collocato è stato pian piano rimpiazzato da un meno spiccato attivismo, poi culminato nella decisione di prendere parte al Tempest, il programma britannico per il nuovo caccia. Visto il ruolo di rilievo che l’Italia 232 gioca all’interno dell’Unione, soprattutto per quel che concerne la politica estera e la difesa, la strada da percorrere potrebbe trovarsi al centro del bivio. Proprio in quanto promotore del progetto militare europeo, l’Italia potrebbe farsi portavoce di un rinnovato bilanciamento tra Stati all’interno della PESCO al fine di mantenere in vita il progetto della difesa europea. Parallelamente, Roma dovrebbe preservare il rapporto instaurato con la Gran Bretagna (soprattutto in materia di industria militare). In questo modo, il nostro Paese potrebbe contrastare l’asse franco-tedesco forte di una rinvigorita collaborazione comunitaria e, allo stesso tempo, continuare a intrattenere forti relazioni industriali con la Gran Bretagna.
*Andrea Margelletti, presidente CeSI – Centro Studi Internazionali