Di seguito il contributo di Mario Baldassarri pubblicato nel Rapporto sull’Interesse nazionale “Italia 2020”
Da varie parti si crede ancora in una equazione che non esiste più da molto tempo: «l’interesse
nazionale» è perseguibile solo se si ha «una sovranità nazionale» con la quale dare ai cittadini
i servizi ed i beni pubblici dei quali hanno bisogno. Certo una sovranità nazionale è necessaria
per dare ai cittadini ciò che lo Stato nazionale può e deve fornire. Sta di fatto però che, negli ultimi decenni,
fondamentali beni pubblici non sono più alla portata dello Stato nazionale che ha quindi perso la sua sovranità.
Pertanto è «interesse nazionale» fornire ai cittadini quei beni pubblici partecipando al recupero dell’unica
sovranità possibile che oggi va costruita a livello sovranazionale, con una sovranità collettiva europea ed un
governo della globalizzazione nel mondo.
Ebbene, negli ultimi venti anni l’economia mondiale e, soprattutto, quella europea hanno invece dondolato sul
baratro di due paradossi come elefanti sul filo di una ragnatela. All’inizio sta il «peccato originale» commesso
dall’Occidente: quello di consentire alla Cina di entrare nel Wto scambiando liberamente le sue merci su tutti i
mercati mondiali, ma lasciandole la libertà di decidere «politicamente» il cambio della sua moneta che i cinesi
hanno furbescamente agganciato al dollaro. Questo ha «regalato» alla Cina la garanzia di mantenere la propria
competitività verso il dollaro ed acquisirne un 50% in più verso l’Europa, a seguito del superapprezzamento
dell’euro durante l’era Trichet, fortunatamente invertita dalla presidenza Draghi alla Bce. E tutto in aggiunta
alla già dirompente competitività cinese basata su costi del lavoro «irrisori» per gli standard occidentali e su
tutte le altre condizioni di dumping sociale.
Da qui il primo paradosso. Stati Uniti ed Europa comprano prodotti cinesi; i cinesi incassano i nostri soldi
e li risparmiano accumulando imponenti fondi sovrani con i quali comprano o i titoli dei nostri debiti
pubblici o pezzi rilevanti della nostra economia produttiva. In sintesi, la Cina, con i soldi dell’Occidente, si
sta comprando l’Occidente, e poiché i soldi che le diamo sono tanti, ha già comprato anche pezzi rilevanti
dell’Africa e dell’America Latina.
Il secondo paradosso riguarda l’Europa che non c’è, cioè la mancanza di un soggetto politico Stati Uniti d’Europa.
Su almeno cinque grandi temi: difesa, sicurezza e immigrazione, politica estera, grandi infrastrutture, nuove
tecnologie, ricerca e alta formazione di capitale umano, i singoli Stati nazionali europei hanno perso per sempre
la loro sovranità nazionale. Su questi cinque temi sfido qualunque sovranista, non solo a casa nostra ma in giro
per l’Europa, a dire come fa a dare risposte serie al proprio popolo, ai cittadini del proprio Stato agendo da solo.
Dobbiamo cioè prendere atto che su almeno cinque «beni pubblici-collettivi» tutti gli Stati Europei, in testa la
potente Germania, non possono dare risposte da soli.
C’è un’unica strada obbligata per riprenderci la sovranità ed essere sovranisti sul serio difendendo in modo
concreto e non solo a parole gli interessi nazionali. Questa sovranità decisionale su ciascuno di questi cinque
temi, possiamo riprendercela solo a livello di federazione europea. Ciò implica, ovviamente, non solo un patto
istituzionale sul ruolo del Parlamento, della Commissione, su chi li vota, su chi viene eletto, ecc., ma occorre
affiancare, alla gamba della Banca Centrale Europea, il bilancio federale europeo.
Negli Stati Uniti il bilancio federale gestisce il 25% del Prodotto interno lordo americano, quindi non è che fa
tutto, il resto è agli stati, alle contee, alle città, ma il 25% del Pil è gestito dal bilancio federale. In Europa il bilancio
attuale dell’Europa intergovernativa (perché di questo stiamo parlando, di una Europa intergovernativa e non
di una Europa federale) è attorno all’1% del Pil. Pensiamo allora di andare avanti con l’1% di Pil ed il resto è
tutto agli Stati nazionali che debbono fronteggiare con la loro spesa pubblica nazionale anche quei cinque
temi rispetto ai quali non possono oggettivamente dare nessuna risposta. È allora interesse nazionale avere
comunque la sovranità di spendere (e di tassare) senza essere in grado di dare servizi e beni pubblici?
Per di più l’ultimo vertice europeo di Bruxelles dello scorso mese di febbraio sul bilancio pluriennale 2021-
2027 è fallito litigando se il totale dovesse essere pari all’1% oppure all’1,1% del Pil!!! Negli stessi giorni è esploso
in Italia e poi nel resto d’Europa e del mondo il coronavirus i cui effetti sull’economia sono dirompenti: Pil
mondiale giù del 3%, quello europeo giù del 7% e quello dell’Italia giù del 10%. Ecco perché occorre con urgenza
una proposta forte e coraggiosa. Si tratta di prendere le quote di risorse che in ogni bilancio nazionale europeo
sono già oggi assegnate a quei cinque temi, senza un euro in più, sommarli insieme e fare il bilancio federale
europeo con cinque temi e cinque ministri. Tutto il resto, per il principio di sussidiarietà, resta agli Stati
nazionali, alle regioni ed agli altri governi locali.
Questo vorrebbe dire che il bilancio federale europeo nascerebbe con circa il 9-10% del Pil, quindi ancora ben
lontano dal 25% della federazione degli Stati Uniti d’America. Ma questo sarebbe un successo storico enorme
perché non dobbiamo mai dimenticare che gli Stati Uniti per scegliere tra confederazione e federazione hanno
combattuto una guerra civile. C’è anche questa cornice storica da non dimenticare. A fronte di tutto questo il
Consiglio europeo vara una manovra europea di 550 miliardi (Mes per la sanità, Bei e fondo disoccupazione)
modesta nelle quantità e tardiva nei tempi, incartandosi sulla possibilità di un bilancio europeo «rafforzato»
con uno 0,5% in più di Pil senza sapere né quantità, né qualità di risorse attivabili (debiti degli Stati o debito
europeo mutualizzato?).
Serve invece un intervento di almeno 2.500 miliardi di euro come fatto nelle altre grandi aree del mondo.
Qui si pone una considerazione. Negli ultimi sessant’anni l’Europa per la difesa ha speso l’1,5% circa di Pil,
Gran Bretagna e Francia il 3%, gli Stati Uniti il 7%. Forse allora ha ragione Trump, nel suo modo un po’
grossolano di parlare, di dire «Cari amici europei, sono più di cinquant’anni che vi paghiamo la difesa, ma
vogliamo riequilibrare i contributi dentro la Nato?». Ha mille volte ragione. Ma questo lo puoi fare solo se hai
la federazione, la Comunità europea della difesa, in alleanza, ovviamente, nell’ambito Nato, con gli Stati Uniti.
Dall’altra parte gli Stati Uniti di Trump che chiedono più soldi all’Europa per la difesa ma come singoli paesi
aderenti e non come Stati Uniti d’Europa, perché con i singoli paesi manterrebbe l’egemonia americana dentro
l’alleanza. Nel frattempo noi ci siamo girati i pollici sull’Europa che c’è, quella intergovernativa, senza porre
un solo mattone per costruire l’Europa che non c’è, quella federale. Per tutto questo è urgente «rifondare»
l’Unione europea con un bilancio federale e dando alla Bce ed al Trattato di Maastricht «due occhi» ciascuno:
due ciechi di un occhio non fanno infatti una persona sana.
1. Lo Statuto della BCE deve considerare, insieme al controllo dell’inflazione, anche l’andamento della crescita
economica o, quantomeno, l’effetto della quotazione dell’euro sulla stessa crescita economica ed attribuire alla
Banca Centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza.
2. Maastricht deve diventare «più rigoroso e meno stupido». Occorre cioè introdurre l’obiettivo dell’avanzo
di Parte Corrente (che si chiama risparmio pubblico) e per ogni 1% di avanzo corrente (autofinanziamento)
consentire 2-3% di investimenti pubblici finanziati parzialmente in deficit. Una golden rule più rigorosa di
quella proposta oltre 50 anni fa da Robert Solow. Si tratta cioè di introdurre una solida leva finanziaria nelle
decisioni di politica economica, come fanno le famiglie quando comprano una casa, anticipando un 30% e
facendo un mutuo per il 70%, oppure le imprese quando usano i loro profitti per finanziare almeno il 30-40%
dei loro investimenti, trovando il resto a prestito sul mercato.
Gli Stati Uniti d’Europa però non servono solo dentro l’Europa, ma anche fuori per un equilibrio nel resto
del mondo. Negli ultimi due decenni, con la cosiddetta globalizzazione, oltre tre miliardi di persone hanno
abbandonato la soglia di povertà. Ovvio che nel mondo occidentale ricco questo ha determinato, a fronte di
quei tre miliardi di ex-poveri nel Terzo e Quarto mondo, trecento milioni di nuovi poveri in occidente. Ma
questo, stiamo attenti, non è colpa della globalizzazione, ma colpa delle classi dirigenti politiche, soprattutto
occidentali (cioè Stati Uniti ed Europa), che non hanno finora capito che, a fronte di questo processo storico,
si deve avere una governance della stessa globalizzazione. Molti puntano giustamente il dito contro la
globalizzazione guardando i lati negativi e cioè la formazione dei monopoli, dei poteri, della finanza, delle
grandi multinazionali e, ovviamente, delle grandi multinazionali di internet. Cosa assolutamente da mettere
in evidenza, ma la colpa non è di chi approfitta di questa globalizzazione, ma di chi non ha adeguato la
governance del mondo alla realtà del XXI secolo.
Faccio un esempio banale. Dopo venti anni e più di globalizzazione andiamo ancora avanti a fare i G7, dentro
il quale sono presenti quattro paesi europei come singoli stati ma non c’è l’Europa. Qualcuno ha addirittura
avuto la brillante idea di non invitare più la Russia, così il G8 è tornato ad essere G7. Ma ci rendiamo conto
che il G7 rappresenta un terzo del mondo dal punto di vista economico, meno di un terzo del mondo dal
punto di vista della popolazione e forse un quinto del mondo in termini di nuove generazioni, e pretende di
dettare le regole e fare il governo di «questa» globalizzazione. È ovvio che i restanti due terzi del Mondo se ne
fregano, non perché sono stupidi e cattivi, ma semplicemente perché dicono che se non sono seduti al tavolo
per decidere insieme le regole, perché mai loro dovrebbero recepirle e rispettarle? Se le regole sono fatte dal G7
che rappresenta solo un terzo del mondo, le rispettino i paesi del G7 e basta!
Ecco perché il G7 è «il passato» ed è come guidare un’auto guardando lo specchietto retrovisore. Tant’è che
suo collega un po’ maldestro è il G20, cioè il tentativo di allargare il tavolo per il governo del mondo a venti
paesi. Ma il G20 non va da nessuna parte perché fa delle bellissime conferenze che tutti noi potremmo fare
all’Università o nei circoli culturali, ma non ha la struttura per decidere ed essere il governo del mondo. Quasi
sempre appare come una riunione di condominio dove si discute molto, ci si accapiglia, ma poi non si decide
nulla. Nel frattempo il tetto del palazzo continua a perdere acqua e si minano le fondamenta dello stesso
palazzo… di tutti.
Governare la globalizzazione significa affrontare un fenomeno come quello dei fiumi, delle acque e dei laghi, lo
puoi gestire ma non lo puoi fermare, se pretendi di fermarlo ne vieni travolto, quindi lo devi governare.
Ecco allora una prima conclusione: occorre un nuovo G8 che ridefinisca le grandi istituzioni internazionali
a partire dal Wto, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Chi dovrebbe essere parte
di questo G8? Ovviamente la Cina, che è la prima economia del mondo in valore assoluto, visto che nel 2017
ha superato gli Stati Uniti d’America; secondo, gli Stati Uniti d’America; terzo, l’India; quarto, il Giappone;
quinto la Russia. Poi in questo scenario mancano due continenti: l’America Latina e l’Africa. Allora si decida
chi dell’America Latina. Qualche anno fa pensavamo al Brasile, ma poi con i problemi che sono emersi in quel
grande paese qualche dubbio si è posto. E siamo a sei. Poi l’Africa. Qualche anno fa si pensava al Sud Africa
ma il Sud Africa è molto a sud e non rappresenta l’Africa. E siamo a sette. Arriviamo in Europa. L’Europa
deve capire che a quel tavolo o c’è come Stati Uniti d’Europa o non c’è! Non possiamo pretendere di sederci al
tavolo con Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, senza neanche gli altri europei. A che titolo, con quale
voce questi quattro singoli Paesi siedono nel G7, cosa rappresentano se non se stessi visto che di fronte alla
globalizzazione sono un microcosmo, financo la potente Germania.
Ecco allora che la presenza e la costruzione di una Europa federale degli Stati Uniti d’Europa non è una scelta,
è una esigenza per recuperare «sovranità» interna e per costruire il governo della globalizzazione. Purtroppo
in questo momento si corre un grave rischio. Questo ragionamento sull’urgenza di un nuovo G8 significa dire
che per governare la globalizzazione occorre il multilateralismo, occorre cioè che gli otto grandi rappresentanti
delle grandi aree del mondo concordino insieme. Questo è «multilateralismo».
Il pericolo allora è che l’amministrazione Trump negli Stati Uniti, come ha detto molto chiaramente, vuole
seguire la strada del «bilateralismo», come gli Orazi e i Curiazi. Significa cioè fare oggi un accordo con la Cina,
poi uno con il Messico o far saltare per aria l’accordo Nafta, poi faccio saltare l’accordo sull’Iran, poi l’accordo
sul nucleare con la ex Unione Sovietica oggi Russia ecc. Ma con questo tipo di bilateralismo non si va da
nessuna parte. Si rischia invece di aggravare la frattura tra la globalizzazione che va avanti con tempi accelerati
e la mancanza di governance.
Quindi il salto verso la federazione degli Stati Uniti d’Europa è un’esigenza anche per il mondo, per l’equilibrio
nel mondo.
È utopia pensare oggi agli Stati Uniti d’Europa, però è urgente agire come se già ci fossero. Occorre subito una
federazione europea «mirata e leggera» che dia al vecchio continente un «governo europeo» su cinque temi:
difesa-sicurezza-immigrazione, politica estera, politica monetaria, grandi infrastrutture ed energia, ricerca innovazione tecnologica e formazione di capitale umano. È utopia pensare oggi ad un nuovo G8 che però
nei «pesi» economici mondiali di fatto c’è già. Senza questi nuovi ed urgenti assetti «politico-istituzionali»,
l’Europa rischia di «implodere» nella garrota di un rigore intergovernativo senza speranza o di una deriva
nazional-sovranista fronteggiata con più deficit e debito pubblico e l’economia mondiale rischia di «esplodere»
in un nuova grande crisi globale.
Tutto questo sarebbe dovuto essere chiaro ben prima del coronavirus. L’epidemia globale rischia solo di
essere il detonatore di una nuova devastante crisi economica mondiale. Imparare la lezione quindi non è
solo sconfiggere il coronavirus ma, soprattutto, costruire un assetto istituzionale in Europa e nel mondo che
consenta di «prevenire» i fuochi che accendono le crisi e non di dover agire ex post, in ordine sparso con il
rischio di esserne travolti, tutti. Ecco perché è essenziale capire la profonda differenza tra «sovranità nazionale»
ed «interesse nazionale» nel mondo del XXI secolo.
*Mario Baldassarri, economista, presidente Centro Studi “Economia Reale”