Docente di Studi Strategici, Paolo Quercia è direttore del Center for Near Aboard Strategic Studies (CeNASS).
D. Quali sono i principali avvenimenti e mutamenti in corso nella area Mediterranea d’interesse dell’Italia?
R. Sono enormi, ed ormai in corso da molti anni. Essi stanno creando un nuovo gorgo geopolitico in cui naufragano le vecchie certezze sull’euromediterraneo, sulla sicurezza regionale, sul ruolo dell’Europa e delle sue vecchie potenze coloniali. Il fattore primo, il motore di questi eventi, è stato l’intervento militare in Iraq, che ha avviato il processo di destrutturazione del Medio Oriente. La crisi economica, le primavere arabe, le sfide poste dall’assertività della Turchia di Erdogan e della Russia di Putin si sono aggiunte negli anni. La mancata reazione dell’Occidente a questi cambiamenti – ed in alcuni casi l’averli addirittura promossi o esasperati – ha gettato la regione nel disordine. Ricordiamo che le regioni geopolitiche non esistono in natura, ma sono delle creazioni storico-strategiche. Sono concetti sempre in movimento, perchè in movimento sono le forze sociali ed economiche che le sottendono. Ed aggi abbiamo il vecchio concetto di Mediterraneo che si sta frantumando. L’Italia è massimamente interessata a che il processo di spezzettamento del Mediterraneo non vada avanti; purtroppo nell’ultimo decennio, ad iniziare dal conflitto libico del 2011, l’Italia ha avuto un ruolo internazionale passivo ed è iniziato il nostro processo di marginalizzazione. Oggi subiamo l’inerzia degli alleati, l’aggressività dei vicini e la malizia di tanti altri attori grandi e piccoli, dalle milizie libiche fino a Malta, passando per alcune ONG che operano in mare con una propria agenda che non tiene conto della nostra sicurezza.
D. Negli ultimi anni l’Italia, che è la porta europea nel Mediterraneo, sembra aver dimenticato il proprio “estero vicino”. L’assenza di protagonismo dell’Italia, in quella che in passato è stata la propria area cuscinetto d’influenza, quanto può costarci nell’immediato futuro?
R. Faccio questo lavoro da venti anni ormai. E sono sufficientemente vecchio per ricordare i fiumi di retorica che sono stati versati dagli addetti ai lavori in Italia sul Mediterraneo come “ponte”, sul soft-power europeo, sull’esportazione della democrazia, sulla modernizzazione dell’Islam, sul potere benefico degli accordi di libero scambio, sulla società civile, sull’immigrazione come fattore di sviluppo, sulla cooperazione, sulle primavere arabe, sul mediterraneo allargato e su tanti altri concetti post-moderni. La dura realtà di oggi è che la post-modernità non è arrivata nel Mediterraneo, ma nel frattempo abbiamo distrutto o fortemente danneggiato quel poco di modernità, anche imperfetta, che era stata creata. Scricchiolano ed implodono gli Stati – che non abbiamo voluto aiutare e sostenere adeguatamente per fare il loro lavoro di sovranità e di costruzione del bene comune – mentre avanzano gli attori non statuali, le forze “private” che si appropriano delle funzioni statuali che collassano. In alcuni casi prendono il volto delle organizzazioni criminali, di milizie armate delle città-stato, delle mai scomparse tribù, del jihadismo, ma anche delle società di sicurezza private. Nuove forme di sovranità post-moderna costruite su antichi paradigmi pre-moderni ma attualizzati alle nuove logiche della globalizzazione. E questi attori non statuali sono le pedine con cui avanzano gli attori esterni, nuove potenze che si muovono con logiche sempre più predatorie, non con logiche di vicinato né di sicurezza regionale. Un gioco alla portata di tutti, anche attori medio o piccoli che vedono nella distruzione degli Stati deboli del Mediterraneo un occasione di far avanzare le loro agende geopolitiche. E’ la ricetta per un caos geopolitico che ci accompagnerà per anni. In questo contesto l’Italia ha dimenticato che tra le sue tante debolezze abbiamo una forza enorme da giocare, quella della nostra posizione geopolitica, baricentrici nel Mediterraneo che dividiamo in quattro parti e che ci vede essere un estero vicino per tutti gli Stati del mediterraneo. Ma se gli Stati implodono, se noi rinunciamo a giocare il nostro ruolo, se altri attori giocano sporco, questa posizione centrale diviene una vulnerabilità e ci troveremo presto ad essere noi stessi travolti dall’instabilità che si sta generando nel Mediterraneo.
D. La cinetica della Turchia come la possiamo interpretare?
R. Difficile tema. In parte una reazione a questa destrutturazione, in parte una causa di essa. Con la Turchia abbiamo molti interessi comuni e siamo portati a convergere su molti dossier. Ma Erdogan, per motivi interni e regionali, sta spingendo molto sulla questione della identità non occidentale della Turchia, sull’islamismo politico, sulla politica estera muscolare. In questo modo ci mette in difficoltà. Per di più, in Libia ed in Somalia sta chiaramente puntando a scalzare la nostra influenza decrescente per nostre colpe. E’ legittimo ma storicamente doloroso. A sua discolpa c’è da dire che Ankara ha subito molti degli errori ed omissioni geopolitiche commesse dall’Occidente nel Medio Oriente e nel Mediterraneo – dalla guerra in Iraq alle primavere arabe – ed ha deciso di passare al contrattacco, ossia di andare da sola, riscoprendo una nazionalismo islamista che mette in crisi la sicurezza regionale nel Mediterraneo e che rende più difficili essere buoni vicini. C’è però da dire che Ankara non ha tutte le colpe. Anche l’effetto dell’Unione Europea sulla Turchia, con tutte le sue contraddizioni, non è stato interamente positivo ed ha paradossalmente favorito l’ascesa nel Paese prima dell’islamismo politico e poi della sua radicalizzazione. Ma in questo gioco nulla è scontato e definitivo. La Turchia negli ultimi dieci anni ha fatto numerose piroette geopolitiche. E anzi tanto può essere influenzato anche dall’Italia se torniamo a fare una politica estera nel Mediterraneo. Penso ad esempio che in Libia, se avessimo una politica più assertiva su questo dossier, potremmo costruire diversi interessi comuni e far emergere spazi di collaborazioni che oggi non appaiono. E a quel punto potremmo usare la nostra influenza su Ankara anche nelle tensioni nel Mediterraneo Orientale. Se perdiamo terreno in Libia, sarà invece Ankara a costruirsi una potere di interferenza sull’Italia e sulla politica interna italiana.
D. La Libia, oltre ad essere il principale porto di partenza di rifugiati e migranti economici, è luogo strategico per i nostri interessi economici ed in particolar modo quelli energetici. Il Governo Conte II aveva parlato di istituire una figura specifica delegata a seguire le vicende nell’area, crede sarebbe stata utile?
R. Parliamo dell’inviato speciale per la Libia. Certo che sarebbe stato utile, direi fondamentale. Ma andava scelto mesi se non anni fa. È stato annunciato ma non nominato. Arrivati a questo punto però, penso che sarebbe meglio un inviato per le questioni strategiche del Mediterraneo – Sahel. Questo perchè sulla Libia c’è bisogno non solo di un maggior coordinamento, ma anche di riscoprire il significato politico e geopolitico del dossier. La Libia non è solo una questione di terrorismo, migranti ed energia. Dentro il dossier libico ci sono le chiavi del nostro ruolo non solo nel Mediterraneo ma nella stessa Europa. Perché solo se contiamo nel Mediterraneo, contiamo in Europa. E per come si stanno mettendo le cose, contiamo nel Mediterraneo se contiamo in Libia. Se giochiamo bene le nostre poche carte in Libia possiamo velocemente recuperare posizioni in Europa, dove ormai contiamo molto, molto poco. E possiamo farci rispettare meglio nei rapporti politici nella regione, che saranno sempre più spigolosi, anche tra alleati. Se invece sbagliamo le mosse in Libia, rischiamo di diventare noi la Libia d’Europa. Io credo che dovremmo smettere di trattare il dossier libico come un dossier del ministro degli interni o di sicurezza. Non perché non ci siano problemi di questa natura, ma perchè nelle questioni internazionali gli approcci funzionalisti nel lungo periodo non pagano. La politica estera o è politica a 360 gradi o non è. Perlomeno questo è il mio approccio nel caso dell’Italia, dove la politica estera dovrebbe essere prioritaria ed è l’elemento fondamentale non solo per la costruzione e tutela dell’interesse nazionale ma anche come elemento caratterizzante l’identità nazionale. Le altre questioni, pure importanti, sono strumenti non obiettivi. Anche per questo ritengo che nel caso delle crisi sistemiche, come quella libica, serva una figura del governo dedicata costantemente a seguire le tante sfaccettature del dossier.
D. C’è ancora tempo affinché l’Italia acquisisca un ruolo primario in territorio libico?
R. Il tempo rimasto è poco, anche perché molte cose andavano fatte subito dopo il conflitto, nel 2012 e nei due, tre anni seguenti. Abbiamo invece galleggiato, e il non aver avuto un ruolo assertivo in quegli anni ha lasciato ampi spazi vuoti che sono stati colmati da altri Paesi, Turchia e Russia in primo luogo. Dobbiamo tornare nei prossimi anni a giocare un ruolo ampio di politica estera nel Nord Africa e nel Mediterraneo. E questo non può che essere fatto a partire dalla Libia, sul cui processo di pacificazione e ricostruzione sono collegati numerosi altri dossier, interni e internazionali. Non è solo una responsabilità storica, visto che Libia l’abbiamo creata noi italiani, ma anche una necessità geopolitica.