A una settimana di distanza dalla catastrofica doppia esplosione del 4 agosto, Beirut non finisce ancora di contare i suoi morti (almeno 160), feriti (più di 6 mila), sfollati e senza casa (300 mila abitanti, un quarto degli abitanti). Il dolore dei libanesi è ancora più grande del cratere che la conflagrazione ha lasciato dietro di sé nella zona del porto, ed è stato il dolore, misto a rabbia, disperazione e a un senso di profonda umiliazione, a rimettere in moto, dopo un rallentamento dovuto al Covid-19, il movimento trasversale di protesta che dallo scorso ottobre chiede a gran voce un cambio di classe dirigente, la fine del sistema di corruzione, maggiore laicità e sviluppo economico, all’ombra del cedro che campeggia al centro della bella e colorata bandiera nazionale.
Sordi alle legittime rivendicazioni della popolazione, per la prima volta unita nella protesta a prescindere dalla religione e dal partito di appartenenza (seppure con qualche rilevante eccezione), la classe “dirigente” al cui vertice si trovano banchieri, uomini d’affari e gli immarcescibili “zaim” locali (i signori della guerra civile, poi divenuti capi tribal-confessionali e leader politici in doppio petto), ha certamente sentito il rumore assordante delle esplosioni, risuonato come campana a morto non solo per coloro che hanno effettivamente perso la vita. La corda del patibolo utilizzata dai manifestanti per impiccare, simbolicamente, le sagome dei vari “zaim”, insieme alla “presa” dei ministeri degli esteri, economia, energia e ambiente, indicano chiaramente che, al cospetto della “rivoluzione”, la classe “dirigente” ha esaurito ogni spazio di manovra (e manipolazione).
A prescindere dalle dinamiche (errore umano o un attacco aereo d’Israele, le principali ipotesi su cui si dividono i libanesi) è un fatto che da quasi 7 anni, i presidenti, i governi, i ministri, le varie autorità “competenti”, comprese quelle attuali, sapevano delle 2,750 tonnellate di ammonio di nitrato giacenti al porto di Beirut. Innegabili, pertanto, sono le responsabilità della classe “dirigente”, accusata di avere le mani sporche del sangue della popolazione libanese, oltre che di continuare ad affamarla respingendo le richieste di riforme e di chiarimenti circa la gestione economico-finanziaria degli ultimi decenni avanzate dalla comunità internazionale, come condizione per elargire nuovi aiuti volti a impedire il definitivo collasso del paese.
Alla luce del grado di corruttela siderale di cui la classe “dirigente” libanese ha dato prova, senza manifestare la benché minima disponibilità al cambiamento, le donazioni in arrivo dall’estero giungeranno direttamente nelle mani delle organizzazioni che sul territorio si occuperanno del salvataggio e della ricostruzione di Beirut, bypassando le istituzioni e la politica, così da evitare nuove dispersioni di fondi. O almeno è questa oggi l’intenzione manifestata dai paesi donatori.
Com’era prevedibile, le esplosioni hanno determinato l‘implosione del fragile esecutivo a trazione Hezbollah, sostenuto dai “cristiani” che fanno capo al presidente, Michel Aoun, e al contestato genero, Gebran Bassil. Sulla scia delle dimissioni di deputati e ministri (informazione, ambiente, giustizia, finanze), il premier Hassan Diab ha optato egli stesso per un passo indietro, dopo che aveva già dato ad Aoun la propria disponibilità a lasciare l’incarico. Diab, docente universitario e sunnita al pari del suo predecessore Saad Hariri (secondo la prassi), era in cerca di una via d’uscita personale che lo mettesse al riparo dall’ignominia e prima delle dimissioni aveva ventilato l’ipotesi di elezioni anticipate, parlando della necessità di un nuovo mandato popolare, in modo da andare incontro, per la prima volta, alle rivendicazioni della “rivoluzione”.
Ma le decisioni in materia politico-istituzionale non possono essere prese senza l’avallo di Hezbollah, che in parlamento resta la forza di maggioranza relativa e non intende cedere le redini del governo senza adeguate garanzie che il Libano non intraprenda un corso sfavorevole all’agenda dell’organizzazione-partito fondamentalista, legata a doppio filo al regime khomeinista iraniano.
L’eccezione di cui sopra si riferisce proprio ad Hezbollah, contro il cui strapotere già ad ottobre si era scagliata in rivolta la gran parte della società civile. Nasrallah, in risposta, aveva assunto un atteggiamento sostanzialmente ostile alla “rivoluzione”, lanciando ripetutamente nelle strade e nelle piazze di Beirut, in tandem con il presidente della Camera, Nabil Berri, le proprie truppe di giovani provenienti dai quartieri sciiti e incaricati di picchiare i manifestanti e bruciarne le tende e le postazioni.
La milizia, gli armamenti, le intimidazioni, la violenza e il terrorismo di Hezbollah hanno scavato un crescente fossato tra il Libano e il mondo circostante, aggravando ulteriormente la situazione economica e sociale per via delle sanzioni. Lo stato di belligeranza e inimicizia con Israele non è messo in discussione da nessun partito, ma l’imposizione dell’inganno della cosiddetta “resistenza”, in nome e per conto di Teheran, si è trasformato in una gabbia che tiene in “ostaggio” l’intera popolazione libanese (sciiti inclusi), come ribadito nelle manifestazioni seguite all’esplosioni del 4 agosto.
Chiamato direttamente in causa per lo stretto controllo esercitato dai suoi uomini sul porto, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha negato qualsiasi coinvolgimento e responsabilità nella tragedia. D’altro canto, che Hezbollah abbia finora disposto del porto come deposito di materiale a uso militare e per la conduzione di altri “affari” è un dato acquisito presso i libanesi (e non solo), comprovato dalla scoperta, effettuata il 9 agosto dalla squadra di salvataggio giunta dalla Francia, di un labirinto di gallerie sotterranee che collega il porto a Dahieh, roccaforte di Hezbollah a Beirut.
Ciononostante, la morsa di Hezbollah sul Libano molto difficilmente si attenuerà. Non è infatti intenzione dell’Iran ridimensionare il ruolo del suo avamposto sul Mediterraneo, né Nasrallah è disposto a farsi indietro. Nell’incapacità di andare allo scontro, con Hezbollah occorrerà pertanto sempre e comunque negoziare. Ed è quanto sembra stia facendo la Francia.
Il presidente Emmanuel Macron si è precipitato nella capitale dell’ex colonia francese immediatamente dopo l’esplosione, in una visita volta a rilanciare il ruolo di Parigi quale protettrice e “mère du Liban”, infondendo coraggio e fiducia in una popolazione a dir poco sgomenta. Al contempo, la sostanza della proposta avanzata da Macron è risultata particolarmente deludente agli occhi della protesta. Il governo di unità nazionale che secondo l’Eliseo dovrebbe succedere all’esecutivo Diab, poggerebbe infatti nuovamente sulla collusione “settaria” tra le varie anime della classe “dirigente” che ha condotto il paese al disastro e che la “rivoluzione” vorrebbe ‒ forse troppo ingenuamente ‒ spazzare via. Inoltre, come accaduto nelle altre esperienze di governo di unità nazionale del passato, Hezbollah continuerebbe a esercitare una funzione predominante.
Con ogni probabilità, tuttavia, sarà questa la strada che verrà intrapresa, sulla base di un accordo che offre ampie garanzie ad Hezbollah (e all’Iran) riguardo sia al mantenimento della sua “posizione” egemone in Libano, che alle indagini sulle esplosioni e all’attesa sentenza del Tribunale internazionale per l’assassinio di Rafik Hariri, prevista il 18 agosto.
Gli esperti francesi inviati da Macron hanno dichiarato, in maniera lampo, che non vi sono prove che lascino pensare che la doppia esplosione “non” sia stata provocata da un incidente: una conclusione “morbida”, forse per mettere a tacere le speculazioni sul coinvolgimento di attori esterni e per preparare il terreno a indagini ufficiali che confermeranno la tesi della “negligenza”, senza però puntare il dito sui principali esponenti della classe “dirigente” libanese, Hezbollah compreso (malgrado le denunce secondo cui, in questi giorni, il lavoro delle squadre di salvataggio internazionali è stato rallentato per evitare che emergessero tracce della “gestione” del porto da parte dei miliziani sciiti).
La contrapposizione tra la “rivoluzione” e l’inamovibile establishment è così destinata a nuove escalation e il record di oltre 700 feriti negli scontri post-esplosioni tra i manifestanti e le forze di sicurezza, dicono che sangue e sofferenze attendono i libanesi anche nel prossimo futuro.