È possibile dare un giudizio obiettivo su quanto è accaduto a Bruxelles in merito all’approvazione del cosiddetto “Next Generation EU” (o “Recovery Fund”), ovvero un piano di aiuti finanziari agli Stati facenti parte dell’Unione Europea per fare fronte alla crisi economica conseguente alla pandemia da Covid-19? Credo di sì, a condizione che si abbia uno sguardo sereno sul significato delle parole e sugli scopi reali che i singoli contraenti intendevano raggiungere.
La prima osservazione riguarda un rilevante cambiamento di pensiero su un punto: l’indebitamento da parte dell’Unione in quanto tale. Sarebbe stupido non ammettere che il Consiglio europeo ha imboccato – sia pure al momento solo una tantum – una strada nuova rispetto al passato, trattandosi in effetti di “eurobonds”, cioè di prestiti che l’Unione in quanto tale chiederà al mercato per raccogliere denari da prestare poi a quegli Stati che ne facessero richiesta. Prima verità: la politica dell’Unione europea si è per la prima volta orientata nel senso della “statualità”.
Si tratta di un cambiamento rilevante, che potrebbe modificare un dato strutturale: se fino ad oggi il trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali all’UE faceva sì che gli Stati nazionali perdessero quote rilevanti di sovranità senza però che questa fosse “ritrovata” a livello europeo, oggi per la prima volta l’Unione, sia pure costretta da circostanze esterne, esercita una forma di sovranità di tipo statuale. Seconda verità: l’Unione ha abbandonato, almeno in questo caso, la politica della globalizzazione (l’Unione europea come strada verso un ordinamento giuridico mondiale) affermando l’idea che la politica può essere fatta non solo in nome dei diritti e del mercato, ma anche in nome degli interessi locali.
Perché ciò è accaduto? Questa è la domanda più importante, la cui risposta apre a una molteplicità di scenari. Diciamo pure che i paesi-guida, la Francia e soprattutto la Germania, si sono resi conto che alcuni Stati, ma in particolare uno, l’Italia, rischiano di entrare in una spirale di crisi capace di trascinare giù la moneta europea e quindi con essa tutti i paesi che si fondano sull’euro, in particolare proprio la Germania. La signora Merkel ha agito fondamentalmente a difesa dell’economia del proprio paese e per questo l’esito della riunione è stato positivo. La Germania doveva garantire che la Spagna e l’Italia potessero fare fronte (sia pure al momento come ipotesi) alle criticità dei prossimi mesi.
Come ha scritto Mark Schieritz sulla Zeit di questa settimana, rispondendo alla domanda che alcuni si fanno: perché i Tedeschi (ma anche Olandesi, Austriaci, Danesi) devono “pagare” per gli Italiani: «Naturalmente noi [Tedeschi] paghiamo, ma paghiamo anche per un pranzo, per una vacanza o un paio di scarpe. Chi paga riceve una compensazione (Gegenleistung) per il suo denaro. In questo caso la compensazione consiste nel fatto di assicurare i posti di lavoro in Germania se gli Italiani, grazie all’assistenza alla ricostruzione, tengono aperti i loro mercati e tornano ad acquistare più automobili tedesche. Forse addirittura quelle elettriche». Terza verità: l’accordo raggiunto è funzionale all’economia tedesca, che dipende in maniera consistente dal livello di vita degli Italiani, sia per quanto riguarda i consumi sia per quanto riguarda la produzione (le componenti dell’automotive tedesca sono al 60% italiane).
Che sia un accordo fortissimamente voluto dalla Merkel per ragioni interne, potremmo dire a difesa dell’interesse nazionale tedesco, non deve né stupire né indignare. È assolutamente giusto che la Merkel faccia i suoi interessi. C’è però un problema politico: l’Unione Europea risulta così essere, nel bene e nel male, un organismo gestito dalla Germania, alle dipendenze degli interessi tedeschi. Se l’Italia ha ottenuto qualcosa è perché il suo interesse sembrava coincidere con l’interesse della Germania. Quarta verità: l’Unione europea riconosce e garantisce l’interesse nazionale, ma specificamente solo quello tedesco.
Questo significa che i membri dell’Unione non sono sullo stesso piano e non solo per le differenze di popolazione. C’è in Europa chi comanda e chi trae vantaggi, eventuali, se è al séguito della potenza-guida. In Europa comanda la Germania, con l’accordo della Francia, e tutti gli altri devono adeguarsi ad una condizione di inferiorità, che non necessariamente implica svantaggi, ma anche vantaggi, sia pure concessi e non garantiti. In questo caso l’Italia ha avuto dei vantaggi? Quanto scritto da Schieritz nel suo editoriale su Die Zeit vale anche a rovescio: qual è stata la compensazione a carico dell’Italia? Questo è il punto. I Tedeschi danno e ricevono in cambio; noi riceviamo e cosa diamo in cambio?
I denari non si trovano per terra e nessuno te li regala. L’accordo raggiunto sul Next Generation EU consiste di due parti: denari che l’UE presta ai paesi che volessero chiederli e che vanno restituiti in trent’anni (sempre alla UE) e denari che la UE dà ai paesi che lo chiedessero entro un massimo prefissato per ogni Stato (per l’Italia 82 miliardi). Sono i cosiddetti “contributi a fondo perduto”, che in realtà non sono tali primo perché nessuno dovrebbe sprecare denari, secondo perché i denari nessuno te li regala. Questi 390 miliardi (che sono previsti per tutti, compresa la Germania, se li chiedesse) sono – dice l’accordo – racimolati sul mercato. Sono cioè prestiti che l’Unione chiede agli Arabi, ai Cinesi, al mio portiere, tutti soggetti che vogliono anche qui qualcosa in cambio, interessi adeguati e/o sicurezza nel ritorno. Sono anche questi prestiti dell’Unione, di cui fa parte anche l’Italia, la quale come prende così (Gegenleistung) deve dare in cambio, in questo caso partecipare alla restituzione di quanto l’Unione chiede in prestito. Quinta verità: se non è una “partita di giro”, in parte le somiglia. Tutto ciò che l’Italia prende deve anche restituire, direttamente e/o indirettamente, in proporzione al suo prodotto interno lordo.
È conveniente tutto ciò? L’Europa non prende soldi in prestito e li dà all’Italia senza precise condizioni, ovvero finalità. E qui la questione diventa delicata ed è opportuno leggere quanto è scritto nell’accordo (che deve poi essere approvato dai parlamenti nazionali), che prevede tutta una serie di ipotesi non proprio entusiasmanti. Per esempio, a parte la riduzione di tutta una serie di altre voci di spesa (compresa la ricerca), l’aumento del contributo dei singoli Stati nella percentuale massima dello 0,6 per cento del PIL ove la Commissione non sia riuscita a recuperare i soldi previsti sui mercati (perché va anche detto che i soldi “a fondo perduto” dipendono dal “buon cuore” degli Arabi e del mio portiere, che li devono dare). Questi soldi, una volta chiesti e trovati, vengono dati agli Stati entro il 2023, 70% entro il 2021-2022, il 30% nel 2023. Come si vede si tratta di un 30% circa all’anno. Per l’Italia circa 24 miliardi nel 2021. Diciamo che non si sciala e tutto questo indipendentemente dal famigerato patto di stabilità, per ora sospeso, ma che sicuramente sarà ripristinato a epidemia finita.
Ma questi soldi dipendono dall’approvazione dei piani. In concreto la Commissione li valuta entro due mesi dalla proposta del singolo Stato sulla base pregiudiziale che siano funzionali alla digitalizzazione dell’economia e alla sostenibilità ambientale: green and digital. Una volta approvati dalla Commissione dovranno poi essere approvati dal Consiglio. Uno Stato (in forza della clausola della “exhaustively”) può bloccare tutto per circa 5 mesi, tra pareri e decisioni, nel senso che lo Stato rischia di non prendere soldi per un periodo più o meno analogo. Il 30% delle spese deve essere coerente con il Trattato di Parigi sul clima e quindi funzionali alla riduzione di emissioni CO2. O si pulisce l’aria o niente soldi, anche se i lavoratori rischiano di morire di fame. Le politiche dovranno sottostare al rispetto della “gender equality”. Per aumentare il bilancio dell’Unione sono previste nuove tasse: sulle transazioni finanziarie, sulla plastica e sulle emissioni, sui trasporti ed altre eventuali. Olanda, Svezia, Austria e Germania daranno di meno al bilancio dell’UE e questa riduzione sarà compensata dagli altri Stati in base al loro PIL (compresa l’Italia, che quindi mette quello che l’Olanda non dà). Contemporaneamente l’Italia prenderà meno fondi per le regioni meno sviluppate (quelle del Sud) dove il numero degli abitanti è diminuito pur in presenza di un aumento della disoccupazione. Tutti i contributi saranno monitorati per evitare «frodi e irregolarità» dalle competenti istituzioni europee. Sesta verità: la Commissione con i suoi uffici interni ed esterni e poi il Consiglio controlleranno come i Paesi che avranno i prestiti spenderanno quei soldi, spesa che dovrà essere coerente con i presupposti (digitalizzazione ed economia verde, oltre che pari opportunità).
In conclusione: nessuno può dire che il Consiglio Europeo non abbia “fatto qualcosa”, ma questo qualcosa, per quanto riguarda l’Italia, è allo stato delle cose inutile. Il contributo che verrà dall’Unione arriverà troppo tardi rispetto alle urgenze e sarà complessivamente (tra avere e dare) assai meno di quanto la propaganda governativa ha ufficializzato. Ecco perché, nonostante tutta questa fittizia pioggia di miliardi “chi sa” chiede i soldi del Mes, anche se pure questi sono condizionati e tutt’altro che immediati (solo 15% al mese dopo i controlli).
La situazione per l’Italia è oggi, dopo il Consiglio Europeo di Bruxelles, assai più grave di prima, perché tutti si affidano al momento su un “aiuto esterno” che arriverà in forme limitate e gravemente condizionate, con la conseguenza che nessuno, al momento, cerca strade alternative, più efficaci e soprattutto più rapide per fare fronte all’emergenza. L’Italia ha già sprecato 100 miliardi, facendo altri 100 miliardi di debito, con un Pil a meno 12% e un debito sovrano che viaggia verso il 160%. Un paese serio se deve indebitarsi (e purtroppo allo stato è così) lo fa a ragion veduta cercando di puntare sulla crescita economica per tranquillizzare e garantire i mercati. Qualcuno allora mi dovrà spiegare perché, in una condizione così grave, mentre si balla sul Titanic che affonda inneggiando all’Europa “solidale”, nel “Decreto rilancio” si danno, per spese vaghe e generiche, 50 milioni (sempre di debiti) al Ministero guidato dall’on. Franceschini.