Ci risiamo, ancora una discriminazione per la scuola cattolica. Come noto le misure adottate per l’emergenza sanitaria da COVID-19 hanno portato alla chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, tra cui, anche le scuole paritarie le quali, oltre alla necessità di mettere in campo risorse aggiuntive per la didattica a distanza, si sono trovate ad affrontare la sospensione del pagamento delle rette da parte delle famiglie. Ciononostante il governo “Conte Due” non ha previsto alcun intervento di sostegno, decretando di fatto la morte di molte di queste scuole.
Gli alunni della scuola paritaria sono 866.805 e solo quelli della scuola cattolica 570.000. Migliaia sono gli istituti (solo quelli associati alla Fidae, la Federazione delle scuole cattoliche, sono 8 mila con un calo dal 2010 al 2018 di ben 1500) con quasi 60 mila insegnati, oltre al personale di servizio. Queste scuole consentono allo Stato di risparmiare miliardi di euro all’anno. Infatti il costo per la scuola statale di un alunno è di euro 5.278,41 per l’infanzia, di euro 5.704,47 per le primarie, di euro 6.348,15 per le secondarie inferiori, di euro 6.693,99 per le secondarie superiori, mentre per ogni alunno delle scuole paritarie è di SOLE 590 euro.
Eppure la legislazione italiana sul tema della libertà di educazione è rimasta pressoché ferma nei suoi principi ispiratori alla concezione statalistica postunitaria. Risulterà chiaro, infatti, anche dal raffronto con le normative in materia, che tutti gli Stati dell’Europa, da decenni ormai hanno posto sullo stesso piano giuridico ed economico sia la scuola dipendente direttamente dallo stato sia la scuola libera o autonoma che dir si voglia.
Da ciò deriva che non si tratta – come vorrebbe ancora far apparire qualcuno in mala fede – di una questione che riguarda esclusivamente i cattolici (anche se in effetti la tradizione pedagogica degli istituti religiosi è quella che più resiste nel nostro Paese e se le scuole gestite da enti ecclesiastici e religiosi rappresentano oltre il 63% di tutto il settore della scuola non statale) ma che interessa tutti i cittadini indistintamente, perché su questo tema si giocano le sorti dell’ultimo dei diritti naturali che la civiltà moderna ci ha lasciato: quello dell’educazione dei figli.
Ma andiamo per gradi, iniziando a chiarire per quali istituzioni scolastiche vale il discorso della cosiddetta parità e per quali alunni e di quali scuole si richiede il trattamento “equipollente” a quello riservato agli alunni delle scuole statali di cui parla la nostra Costituzione all’art. 33.
Certamente non si è mai inteso estendere benefici di alcun genere a quelle scuole che, essendo configurabili come vere e proprie imprese, hanno come oggetto sociale e come scopo precipuo quello del lucro e, quindi, non intendono né pretendono di svolgere un servizio pubblico alla collettività, come invece quelle altre scuole che fanno capo ad enti, congregazioni, cooperative che non hanno scopo di lucro e che sono inserite nella programmazione scolastica territoriale, che eleggono al loro interno i previsti organi collegiali, che rendono noti con la necessaria trasparenza i rispettivi bilanci, che assumano a norma di legge e dei contratti collettivi insegnanti che abbiano i prescritti titoli di studio, che osservano le vigenti norme di igiene ambientale, che offrano, infine, un tipo di insegnamento che si ispiri ad un progetto educativo qualificato.
Del resto la nostra Carta Costituzionale anche se con norme di carattere generale che dal giorno della sua promulgazione attendono ancora di veder varate le necessarie leggi applicative e, soprattutto, da quando la Corte Costituzionale con sentenza del 4 giugno 1958 cancellò l’art. 3 ed i commi I, II e III dell’art. 4 della Legge 19 gennaio 1942 nr. 86, che disciplinava l’istituto dell’autorizzazione all’apertura di nuove scuole non statali, ha già individuato e delimitato il campo entro il quale può essere concessa la parità alle scuole non statali e stabilito per quali alunni debba essere assicurato un trattamento “equipollente” a quello degli alunni delle scuole statali.
L’art. 33, infatti, chiaramente identifica tra tutte le scuole private di cui al III comma, quelle “che chiedono la parità”, prescrivendo subito dopo che la legge “deve assicurare ad esse piena libertà ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. E ciò nello spirito dei principi inderogabili costituzionali che tutti i cittadini sono uguali difronte alla legge; che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociali che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3)”; che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30)”; che “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relatici (art. 31)”; che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento (art. 33)”; che “la istruzione inferiore, impartita, per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita (art. 34)”;che “i capaci ed i meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi (art. 34)”; ed, infine, che “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale (art. 38)”.
E che questa sia la volontà del legislatore lo dimostra anche il fatto che in maniera esplicita il Nuovo Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, stipulato il 18/02/1984, all’art. 9, primo comma, recita testualmente: “la Repubblica italiana, in conformità al principio della libertà della scuola e dello insegnamento nei termini previsti dalla propria Costituzione, garantisce alla Chiesa cattolica il diritto di istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione. A tali scuole che ottengono la parità è assicurata la piena libertà e ad i loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole dello stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l’esame di stato”.
In effetti tutta la concezione che permea la nostra carta fondamentale è quella di una scuola come servizio pubblico, svolto nell’interesse della comunità nazionale, indipendentemente da chi ne usufruisce e da chi lo svolga (Stato o enti privati purché nell’ambito di quelle norme generali dettate dal II comma dell’art. 33).
Proprio per questo, voler continuare ad insistere su quel “senza oneri per lo Stato” di cui al III comma dell’art. 33 da parte di coloro che restano arroccati su posizioni monopolistiche significa voler disattendere e contraddire lo spirito della nostra Costituzione perpetuando una discriminazione nei confronti di milioni di cittadini e proseguendo in quella tradizione statalistica che ha informato, dall’unità d’Italia ad oggi, la politica scolastica del nostro Paese.
L’art. 33 al III comma di fatto però ha bloccato sempre dal 1947 ogni tentativo di proseguire sulla strada della parificazione economica, proprio mentre tutta la legislazione internazionale si muoveva a grandi passi in quella direzione e tutti gli Stati dell’Europa addirittura adottavano provvedimenti per porre una volta per sempre sullo stesso piano scuole di stato e scuole libere.
Basterebbe solo ricordare, per quanto riguarda il diritto internazionale, peraltro liberamente accettato e ratificato con leggi nazionali del nostro stato, solamente: la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” dell’ONU, sottoscritta dall’Italia il 15/12/1955 (“i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”); la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo” del 20/11/1959 (la responsabilità educativa “incombe in primo luogo sui propri genitori”); la “Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” firmata a Roma il 4/11/1950 ed il suo “Protocollo addizionale” del 20/03/1952 (“lo stato nell’esercizio delle funzioni che assumerà nella competenza dell’insegnamento e della educazione, rispetterà il diritto dei genitori d’assicurare quella educazione e quell’insegnamento conformi ai propri convincimenti religiosi e filosofici”), ratificata dall’Italia il 13/12/1957; il “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” del 1966; la “Convenzione internazionale contro la discriminazione nel settore dell’istruzione” del 1960, la Sentenza del 7/12/1976, Serie A nr. 23 della Corte Europea dei diritti dell’uomo, e, soprattutto la Risoluzione “Luster” approvata dal Parlamento Europeo il 14/03/1984 con la quale non solo si riconfermava che “il diritto alla libertà d’insegnamento implica l’obbligo da parte degli stati membri, di rendere possibile l’esercizio pratico di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti ed all’adempimento dei loro obblighi, con le stesse condizioni di quelle di cui beneficiano le scuole pubbliche corrispondenti, senza discriminazioni nei riguardi dei gestori, dei genitori, degli alunni o del personale (nr. 9)”, ma si fornivano anche le misure di attuazione (nr. 3) e si indicavano gli eventuali strumenti giurisdizionali da attivare in caso di violazioni: “la Commissione della Comunità Europea in caso di fondato sospetto di violazione del diritto alla libertà d’insegnamento e di istruzione, avvia le procedure applicabili nei casi di violazione dei diritti fondamentali e dei principi generali della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, riconosciuti dalla Comunità”.
E che la Risoluzione “Luster” sia stata approvata in special modo per stati come l’Italia, lo dimostra il fatto che tutti gli altri membri della Comunità hanno già da diverso tempo regolamentato tutta la materia, garantendo ampi spazi di libertà “effettiva” a tutti gli enti ed i soggetti che concorrono insieme alla scuola dello stato all’educazione nazionale. Nel 1994 arrivò poi l’importante pronuncia della Corte Costituzionale che considerava ingiustamente discriminatoria l’esclusione dal godimento di provvidenze statali ( per l’acquisto dei libri di testo) di quegli alunni che avevano scelto di assolvere l’obbligo scolastico in scuole non statali. Infine viene varata finalmente la legge sulla parità (L. 62/00) che con il decentramento e con l’autonomia, sancisce il principio di “sussidiarietà orizzontale” con l’ingresso nel servizio pubblico di scuole istituite sia da enti locali che da soggetti privati.
Il riconoscimento della parità (in realtà, una presa d’atto dei requisiti richiesti dallo Stato), almeno sul piano formale, inserisce la scuola “privata” nel sistema pubblico nazionale di istruzione.
Da parte sua, la scuola paritaria si impegna a contribuire alla realizzazione della finalità di istruzione ed educazione che la Costituzione assegna alla scuola e al rispetto delle regole di organizzazione, di gestione e di funzionamento previste dalla legge.
Gli obiettivi della legislazione sull’autonomia però sono rimasti in gran parte inattuati.
L’invito all’integrazione e alla collaborazione contenuto nella Legge Berlinguer è stato colto sopratutto sul piano di principio; nei fatti, però, la distinzione è rimasta netta. Per questo motivo la presenza delle scuole non statali è andata progressivamente diminuendo nel corso degli anni.
L’EUROPA DELL’EDUCAZIONE
Eppure in tutta Europa le situazioni sono totalmente ribaltate.
Il sistema inglese è fra quelli in cui le scuole dispongono di maggiore autonomia operativa.
In Francia, dove la scuola non statale copre il 18% di tutta la popolazione scolastica, dopo quasi un secolo di “guerre scolaire”, le leggi Debrè del 31/1/1959 e dell’1/6/1971 e quella Guemeur del 25/11/1975 hanno creato un sistema misto che prevede quattro categorie di scuole: quelle integrate, in pratica statizzate, quelle che godono di libertà assoluta e non ricevono alcun sussidio; quelle a contratto semplice, nelle quali gli insegnanti sono forniti del cosiddetto “gradimento” dello stato, per cui da esso ricevono la retribuzione ed a suo carico sono gli oneri sociali; quelle, infine, “associate” che usufruiscono di finanziamenti per il loro funzionamento.
In Belgio la scuola non statale rappresenta ben il 60% dell’intero sistema educativo e fin dal 1959 riceve dallo stato i fondi necessari per le rette, per il personale, per la gestione e la costruzione degli stessi edifici scolastici.
Nella Germania Federale, così come avviene in Gran Bretagna, la maggior parte delle scuole fanno capo alle amministrazioni dei singoli Laenders, che assicurano nell’ambito della scuola pubblica che il diritto naturale all’educazione dei figli sancito dalla Costituzione del 1949 e ripreso dalle legislazioni scolastiche di tutti i Laenders, possa essere concretamente ed agevolmente esercitato scegliendo, ad esempio, scuole di confessioni religiose conformi ai rispettivi convincimenti. Le rimanenti scuole private usufruiscono di contributi statali anche se parziali, per la manutenzione degli immobili, per il pagamento del personale all’85% e per le pensioni al 90%.
In Olanda, dove la scuola statale assicura il servizio al 30% degli studenti, frequentando tutti gli altri le scuole non statali, lo stato stanzia le stesse provvidenze per i due tipi di scuola.
Nella Spagna, nonostante vari governi socialisti abbiano tentato di delimitare e comprimere sensibilmente l’autonomia della scuola non statale che raccoglie il 38% dell’intera popolazione studentesca e che è costituita per la maggior parte da scuole cattoliche, lo stato, pur esercitando una certa vigilanza ed avendo inserito propri rappresentanti nei consigli di amministrazione delle singole scuole, assicura finanziamenti pubblici di una certa consistenza.
E l’elenco potrebbe continuare con l’Irlanda, la Svezia e la Danimarca, paesi nei quali non vige alcuna penalizzazione per le scuole private che, viceversa, sono messe sullo stesso piano di quelle statali.
In Italia, invece, siamo ancora fermi, per quanto riguarda la parità di trattamento economico alle dichiarazioni di principio ed alle proposte di legge (nel dopoguerra ne sono state presentate decine – anche da parte di chi scrive – e nessuna è stata mai nemmeno discussa in assemblea), nonostante negli ultimi tempi siano intervenute indicazioni legislative e delle pronunce giurisprudenziali che hanno iniziato a incrinare l’intransigente monolitismo della nostra politica scolastica, che è stata scalfita solamente della legge più volte ricordata dall’ex Ministro Berlinguer.
In conclusione, nessuno vuole contrapporre la scuola non statale a quella dello stato per una “revanche” confessionale o per sostituire una supremazia ad un’altra, che risulterebbe anch’essa sterile ed improduttiva, avendo di vista un servizio scolastico pubblico che veda integrarsi i due tipi di scuola che hanno ambedue una rilevanza giuridica pubblicistica, perché pubblico è il servizio che svolgono e che offrono alla nostra società.
Per il resto le proposte che attualmente sono sul tappeto e che puntano o sul “buono scuola” o sul finanziamento della funzione docente; sulla possibilità di detrarre dalle tasse gli importi delle rette pagate alle scuole non statali o, per ora, su una particolare normativa per la scuola materna, su finanziamenti erogati direttamente agli enti gestori delle scuole o sull’attribuzione dell’autonomia gestionale, amministrativa e didattica a tutte le scuole statali e non, potranno essere vagliate compiutamente in altra sede e nell’ambito di un progetto più vasto che riguardi l’intero sistema dell’istruzione italiana.
Resta perciò l’obiettivo comune di restituire ai cittadini quella ampia autonomia decisionale che è stata loro progressivamente confiscata dall’invadenza di uno stato assistenziale e clientelare: uno Stato tanto più invadente quanto più burocratico, tanto più costoso quanto più inefficiente.