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LA DOPPIA RECESSIONE E COME COMBATTERLA

Mentre in gennaio, prima dell’esplosione della pandemia, il Fondo monetario internazionale aveva previsto una crescita del 3,3% dell’economia globale per l’anno in corso, le ultime stime sono di una contrazione del 3%. Le perdite complessive del Pil mondiale per la pandemia del coronavirus ammontano a quasi 9.000 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2021, una cifra che supera quella delle economie del Giappone e della Germania messe insieme. Lo stesso Fmi osserva anche come ci sia “estrema incertezza sulle stime di crescita” e spiega che “le ricadute economiche dipendono da determinanti difficili da prevedere”. Nella seconda metà del 2020 gli sforzi di contenimento “potranno essere allentati gradualmente” dando la spinta per una ripresa nel 2021, quando “l’economia globale dovrebbe crescere del 5,8%”, grazie “alla normalizzazione dell’attività economica, aiutata dagli interventi dei governi”. Questi ordini di grandezza – sottolinea il documento- si riferiscono allo “scenario ottimista” tracciato dal Fondo, che ne ha delineato anche altri due, molto più cupi. Per l’economia mondiale e per le economie dei principali Paesi, Italia compresa.

Secondo il Fondo, il Pil italiano avrà una contrazione del 9,1% quest’anno, mentre nel 2021 è prevista una ripresa che però si fermerà al 4,8%. In Germania e Francia, sempre secondo il Fondo, si verificheranno contrazioni del Pil attorno al 7% nel 2020. Per l’Italia, inoltre, si prospetta una recessione “a gobba di cammello”, ossia una doppia recessione, come nel 2008-2009 e nel 2011-2012, se non si utilizzerà la crisi per un riassetto della finanza e del debito pubblico, nonché per un rilancio della produttività dei fattori (lavoro e capitale). Churchill amava dire: “Non sprechiamo mai una buona crisi”. Nella sua drammaticità umana, economica e finanziaria, questa potrebbe essere l’occasione di una svolta.
Lo mostrano pochi numeri. E’ del tutto insufficiente l’ammontare di risorse che potremmo spendere per impedire che l’economia crolli. Lo stimolo espansivo che il Governo italiano sta dando all’economia ed al contrasto delle implicazioni economiche del coronavirus è così limitato (pari a molto meno dell’1% del Pil, mentre quello della Germania, ad esempio, supera il 4% e quelli di Danimarca ed Olanda il 2%). Nonostante la ‘sospensione’ dei trattati e degli accordi intergovernativi europei, il fardello del nostro debito pubblico (136% del Pil) non ci consente manovre come quelle di Germania, Danimarca ed Olanda i cui debiti pubblici sono pari al 59%, 33% e 49% dei rispettivi Pil. In una nota del 18 aprile, del Presidente del Club dell’Economia, Bruno Costi, si sottolinea che la quantità delle risorse che potremo investire e spendere nei prossimi 12 mesi sono la somma tra i 20 miliardi già decisi con il decreto “Cura Italia”, i 45 previsti dal prossimo decreto “Rilancia Italia” , ed una cifra pari a circa 100 miliardi che sperabilmente potrebbero arrivare dall’Europa attraverso i vari strumenti; in totale dunque 165 miliardi, meno dei 180 miliardi che a fine anno avremo perso per il calo del Pil. “La potenza distruttiva di una recessione è molto maggiore della capacità ricostruttiva di un rilancio. E dunque, per pensare semplicemente di ritornare ai valori di Pil del 2019, è verosimile dover stanziare (e soprattutto saper spendere) almeno il doppio di quanto si profila”.

Ancora una volta, il vincolo principale è il debito. Siamo il Paese con il terzo debito pubblico più alto al mondo. Secondo le stime Fmi, arriverà a 153-157% del Pil alla fine di quest’anno ed al 170% il prossimo. Il 36% è collocato all’estero; negli ultimi collocamenti i risparmiatori italiani hanno mostrato una certa “stanchezza” rispetto a questo impiego per i loro risparmi. Non siamo in una situazione come quella del Giappone in cui i titoli di Stato vengono collocati all’interno e, se del caso, la Banca centrale li assorbe in ultima istanza. Tale funzione è in ogni caso vietata alla Banca d’Italia dalle regole di base dell’unione monetaria europea.
“Saremo in grado – si chiede Costi- di rassicurare i mercati che potremo pagare almeno gli interessi? E che l’aumento del Pil futuro sarà superiore a quello degli interessi sul debito? “. Come reagiranno – aggiungo- alla prospettiva che il peso del debito ci porterà a lasciare l’unione monetaria, e causerà – come avvenne nel settembre 1992 – una svalutazione del 30% al solo timore che l’Italia avesse pensato di non fare parte dell’eurozona allora in costruzione? Ciò causerebbe perdite enormi di reddito e di capitale agli italiani ed agli investitori e la sola prospettiva potrebbe essere la molla per la seconda recessione.

Quindi occorre un piano vasto e lungimirante per evitare questo scenario. Utilizzando, al meglio, tutte le risorse disponibili. Quelle che può mettere in campo l’Unione europea (Ue) sono potenzialmente molto ampie, se sappiamo coglierle ed utilizzarle bene. Il 16 aprile, l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica ha pubblicato un interessante raffronto sugli aiuti del Piano Marshall all’Italia nel 1948-1952 e quelli già messi in campo ora per il 2020: senza tener conto dell’eventuale apporto del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e delle Outright Monetary Transactions (Omt), l’Ue ha messo in campo finanziamenti che nel 2020 potrebbero arrivare sino al 14,1% del Pil e che, in un approccio collaborativo, potrebbe continuare negli anni prossimi (se le difficoltà proseguono e per evitare la seconda recessione), mentre gli aiuti del Piano Marshall sono stati mediamente pari al 9,2% del Pil. E’ vero che l’apporto europeo è di credito agevolato, mentre gli aiuti del Piano Marshall erano doni. Il Piano Marshall, però, una pesante condizionalità politica ed economica: adesione alla Nato, approvazione del programma pluriennale di politica economica da parte dell’Oece, approvazione dei singoli progetti sia dall’ufficio del Piano Marshall nel Paese sia di quello a Washington, acquisto di beni e servizi solo americani, stretta supervisione. Tanto che appena possibile l’Italia si rivolse alla Banca mondiale ed al Fmi.
E’ necessario, a mio avviso, utilizzare tutte queste risorse, anche quelle del Mes e delle Omt in attesa che vengano creati nuovi strumenti i quali richiedono tempo per essere formulati, approvati e ratificati. Un tempo che l’Italia non ha.

Sul Mes, premessa per le Omt, occorre fare chiarezza dato che sono in corso tre trattative distinte: a) la prima iniziata nel 2018, e in sostanza accantonata a fine 2019, relativa alla riforma dell’accordo del 2012; b) la seconda iniziata circa un mese fa ed attinente ad un nuovo sportello del Mes, privo di condizionalità di politica economica, che sarebbe in vigore per due anni e sarebbe mirato alle spese sanitarie per l’emergenza; c) la terza pertiene all’accesso o meno dell’Italia a questo nuovo sportello, se verrà. L’accesso è una decisione puramente italiana e richiede un voto parlamentare. Se l’Italia non vota a favore del nuovo sportello, resterà isolata nell’eurozona, perché numerosi altri Stati vogliono accedere a tali finanziamenti. Ad un’analisi costi-ricavi, per l’Italia accedere al Mes (che non fa finanziamenti a fondo perduto, ma credito agevolato) può rappresentare per una somma di 36 miliardi un risparmio di circa 400 milioni rispetto al ricorso al mercato (ossia emettendo titoli di Stato per pari importo). Più significativo è che il Mes è la porta per le Omt, messe a punto dalla Bce nel 2012. Le Omt permettono nella sostanza di ‘europeizzare’ nuovo debito pubblico, obiettivo primario dell’Italia. La decisione di concedere Omt spetta unicamente alla Bce, i cui organi negoziano con lo Stato che vuole usufruirne i termini, le condizioni e le regole di vigilanza. L’Italia è ben rappresentata tanto nell’Esecutivo quanto nel Consiglio della Bce. Le Omt comportano una condizionalità non differente da quella dei prestiti di cui l’Italia ha fruito in passato, ad esempio, dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale.
Quale è l’alternativa? Per quest’anno si prevede disoccupazione in aumento dal 10% al 12,7% in Italia. L’eurozona nel suo complesso vedrà i senza lavoro salire al 10,4%; unicamente in Germania il tasso di disoccupazione resta sotto il 4%. Al rallentamento dell’attività economica si accompagnerà una generalizzata gelata sull’inflazione, con indici di aumento dei prezzi allo 0,2% nell’eurozona e allo 0,6% negli Usa, nonché un calo dei redditi. Un editoriale di The Economist del 18 aprile rammenta che sta nascendo una rivolta dei millennial arrabbiati contro chi ha lasciato troppo debito sulle loro spalle unitamente alla prospettiva di poco lavoro e poco reddito.

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