Il boicottaggio di Taiwan da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) potrebbe aver contribuito a ritardare di settimane la risposta globale alla pandemia di coronavirus. E’ quanto emerge dalle testimonianze di medici ed esperti dei Centri per il Controllo delle malattie (Cdc) taiwanesi, raccolte tra gli altri dal quotidiano “Nikkei”. Le rivelazioni giungono in concomitanza con le ultime, durissime critiche rivolte all’Oms del presidente Usa Donald Trump, che ha accusato l’agenzia delle Nazioni Unite di essere “sino-centrica”, e l’ha minacciata di congelare i consistenti finanziamenti stanziati in suo favore dagli Stati Uniti. Stando alle rivelazioni della stampa taiwanese, i Cdc – agenzia incaricata della lotta alle malattie trasmissibili alle dipendenze del ministero della Salute di Taiwan – erano in stato di massima allerta sin dallo scorso dicembre a causa di quella che appariva allora come una misteriosa epidemia di polmonite virale a Wuhan. Già il 31 dicembre, l’agenzia governativa taiwanese decise di inviare un avvertimento all’Oms; quest’ultima decise però di ignorare Taipei, estromesso ormai da anni dall’agenzia Onu in ossequio all’influenza politica della Cina, che ritiene l’Isola una provincia secessionista e non ne riconosce la statualità.Già lo scorso febbraio, lo spinoso tema della statualità di Taiwan, e il suo completo boicottaggio da parte dell’Oms, nonostante la situazione di emergenza sanitaria in atto a livello globale, si era palesato come grave problema di immagine per l’agenzia Onu, i cui vertici hanno più volte rifiutato, nelle scorse settimane, di formulare alcun commento in merito all’Isola e al suo evidente successo nel contrastare autonomamente il ceppo virale responsabile della Covid-19. Le tempistiche e le rivelazioni fornite dalla stampa taiwanese, però, dipingono uno scenario ancor più grave: di fronte al silenzio e all’assenza di cooperazione da parte dell’Oms, infatti, le autorità sanitarie di Hong Kong istituirono già il 2 gennaio 2020 un centro di risposta emergenziale per far fronte al nuovo ceppo virale emerso a Wuhan. Il 12 gennaio, i Cdc taiwanesi inviarono addirittura due epidemiologi nella città della Cina centrale epicentro dell’infezione, per raccogliere autonomamente informazioni in merito alla natura dell’agente patogeno, alla sua pericolosità e al decorso clinico dei pazienti infetti.Le autorità taiwanesi, già alle prese con i preparativi delle elezioni presidenziali tenute lo scorso 11 gennaio, diramarono proprio in quei giorni i primi allarmi diretti ai medici e agli ospedali di prima linea dell’isola. Secondo una fonte citata da “Nikkei”, “Proprio all’inizio del 2020, abbiamo ricevuto una nota di allerta dei Centri per il controllo delle malattie (…) che ci chiedeva di prestare attenzione ad eventuali pazienti con sintomi quali tosse, febbre, mal di gola e naso che cola. Ci venne chiesto di accertare i trascorsi di viaggio di quei pazienti, la loro occupazione e i loro contatti”. Sin dall’inizio di gennaio, gli ospedali di Taiwan iniziarono ad accumulare mascherine N-95 ed altri equipaggiamenti protettivi per i medici e gli operatori sanitari in prima linea, e ad indossarli a contatto con pazienti affetti da polmonite di origine sconosciuta o che necessitassero di respirazione assistita.
Il primo caso ufficiale di contagio da coronavirus a Taiwan risale al 21 gennaio scorso: per allora, i primi casi di infezione erano stati già segnalati anche da Thailandia, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti, e la televisione di Stato cinese aveva ammesso la trasmissibilità del virus tra persone: eppure, l’Organizzazione mondiale della Sanità si riunì per discutere se proclamare uno stato di emergenza sanitaria internazionale solamente il 22 gennaio. La decisione di procedere in tal senso, prendendo atto della situazione di emergenza, venne rinviata dall’Oms quel giorno e i giorni successivi, mentre su riviste scientifiche internazionali, come il “New England Journal of Medicine”, venivano pubblicate evidenze dei primi casi di trasmissione umana del virus a Wuhan risalenti già al mese di dicembre 2019. L’Oms si mobilitò concretamente, inviando un proprio team di esperti in Cina, soltanto il 28 gennaio. Il 30 gennaio, infine, l’agenzia decise di prendere formalmente atto della crisi, classificando l’epidemia di coronavirus in corso a Wuhan come Emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale (Pheic).
Per allora, diversi paesi asiatici si erano già attivati autonomamente, introducendo limitazioni ai flussi di persone e merci da Wuhan o dall’intera Cina: tra questi, Corea del Sud e Singapore. Taiwan, che il 24 gennaio aveva bloccato le esportazioni di mascherine e la loro successiva distribuzione ai cittadini dell’Isola, decise il 6 febbraio di bloccare tutti gli ingressi di cittadini cinesi, e di sottoporre a quarantena obbligatoria i visitatori da Hong Kong e Macao. Nel frattempo, l’Oms sollecitava i governi mondiali ad agire in senso contrario, mantenendo aperti i collegamenti aerei con la Cina, ed attribuendo a quest’ultima una risposta tempestiva e trasparente all’emergenza sanitaria. Nel pieno della crisi, Taiwan si è trovata nel frattempo a dover gestire anche le conseguenze della politica dell’Oms nei suoi confronti: la decisione dell’agenzia Onu di considerare Taiwan parte integrante della Cina, ad esempio, ha comportato già all’inizio della crisi il blocco dei voli internazionali verso l’Isola, una situazione che a febbraio ha causato attriti anche tra il governo di Taipei e l’Italia.
Il 19 marzo, di fronte all’avanzata del virus a livello globale, le autorità di Taiwan hanno deciso di vietare l’ingresso nell’isola a tutti i cittadini stranieri, e di sottoporre a tutti i cittadini taiwanesi di ritorno dall’estero ad una quarantena obbligatoria di 14 giorni. Il tempismo ed il rigore che hanno caratterizzato la risposta di Taiwan alla pandemia di coronavirus hanno consentito a Taipei di tenere il virus sotto controllo: i casi di contagio confermati nell’Isola dall’inizio della crisi sono soltanto 376, a dispetto dei flussi vastissimi di persone e merci che caratterizzano ordinariamente lo Stretto di Taiwan e dell’assenza di misure restrittive agli spostamenti della popolazione. Secondo Tony Chen Hsiu-hsi, epidemiologo del National Taiwan University’s College of Public Health, “per contenere efficacemente una epidemia, è necessario attivarsi in anticipo e agire con prontezza, così da guadagnare tempo. Attendere che l’epidemia acceleri e iniziare a imporre blocchi territoriali o interventi estesi rischia di essere troppo tardivo e del tutto inefficace, perché a quel punto il virus potrebbe essersi già diffuso ovunque”. (testo ripreso da Agenzia Nova)