Procedendo di assurdità in assurdità il rischio è quello di non capirci più nulla. Salta dalla sedia Matteo Salvini e con lui quanti sono ancora dotati di un briciolo di buon senso e visione d’insieme. Italia-paese-razzista? La pensa così l’alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, l’ex presidente socialista del Cile, che intende inviare addirittura gli ispettori per verificare chissà che cosa.
Cosa, appunto; ma anche come. Difficile capire come si dovrebbe verificare, infatti, se un Paese è o no razzista, soprattutto se il capo della polizia, nominato peraltro da governi di centrosinistra, Franco Gabrielli, avverte che non vi è «alcun allarme» in tale senso. Passeggiando al parco, andando in pizzeria o – peggio ancora – leggendo i giornali del gruppo De Benedetti? Si scherza, anche se da ridere c’è ben poco. Prima ancora della crisi Diciotti, la home page del sito di Repubblica era una collezione di notizie (vere o presunte tali) sull’allarme xenofobo che attraverserebbe il Paese.
Basta ricordare il caso dell’atleta azzurra di origini nigeriane Daisy Osakue. Bene, è lì che sta o cade ogni ipocrisia. Sarebbe bastato spulciare il primissimo lancio d’agenzia per scoprire che i carabinieri nell’immediato avevano escluso la matrice razzista di un gesto comunque criminale (e demenziale). Invece no, la campagna stampa è andata subito a braccetto con la mobilitazione indetta da Maurizio Martina, il reggente Pd. Salvo poi scoprire che prima di nascondersi, la mano che aveva lanciato quell’uovo infame aveva sventolato il tricolore dem. Mamma mia che vergogna!
Italia-paese-razzista? Torniamo quindi al punto di partenza, alle preoccupazioni «inappropriate» della Bachelet – per dirla con il ministro degli Esteri Moavero. «Il governo italiano – dice lei – ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong» e «questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili». Ecco la «lezione». Che però è debole di contenuto, perché parte dall’assunto ideologico che la condizione migrante sia di per sé benedetta, al di là della sua regolarità e del rispetto delle norme che uno Stato sovrano detta in funzione di un bene che sia allineato sì alla universale dignità umana, ma anche – e simultaneamente – all’interesse particolare di una comunità nazionale.
Se l’acronimo Onu sta per organizzazione delle nazioni unite, e non nell’organizzazione dei popoli uniti, un motivo ci sarà. La forma nazionale è l’unica che ancora oggi individua e garantisce concretamente i diritti dei popoli in relazione agli altri popoli e alle sovrastrutture istituzionali. Passassero le inventive no-borderline di certa intellighenzia, salterebbe la funzione – già in affanno – del Palazzo di Vetro e delle sue protesi.
Ancora però non siamo arrivati al vero nodo della questione. Perché, se razzista è chi crede il proprio “ceppo” superiore agli altri, siamo davvero fuori strada. Gli Italiani non hanno di se stessi questa presunzione, semmai il contrario. Una volta si sarebbe parlato di santi-poeti-e-navigatori. Oggi, invece, resta l’ombra sbiadita di un popolo sfiduciato, stanco, questo sì. Arrabbiato con la propria classe dirigente, che sulla questione migranti (come in altre) non è riuscita a dire tutta la verità: che è un fenomeno quasi mai privo di complicazioni. Non esiste grande nazione, a partire dagli Usa, che non è stata scossa da profondi attriti di classe e razza connesse alle migrazioni.
L’Italia oggi è attraversata da profonde incertezze e se è sbagliato riversare sacche di frustrazione sui più deboli, è altrettanto grave dipingere una nazione razzista sol perché fa comodo al coro dei benpensanti e ai loro conati. La presunta superiorità morale di certe élite – stando allo schema già proposto sopra – crea discriminazioni ben più gravi: ma non in senso razziale, ma verticale. Si può essere violenti (cosa che si condanna a prescindere) e si può essere anche “aggressivi passivi”. Fare i buoni scatenando, per reazione, i pruriti più abietti di chi sta in basso, non può valere come alibi. Non per sempre, almeno. Se il razzismo è di per sé un male sine glossa, il razzismo antirazzista di matrice ideologica, è un virus assai più ambiguo e sospetto.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta