Tra il 23 e il 26 maggio del 2019 si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Questo appuntamento con le urne rappresenta un bivio, forse decisivo, per il futuro dell’Unione e delle sue istituzioni. Per la prima volta i cittadini del Regno Unito non parteciperanno alle consultazioni; ma a caratterizzare ancor di più le prossime elezioni europee è l’inedita – e concreta – possibilità che a Strasburgo sieda una maggioranza cosiddetta “sovranista”. Tale eventualità, considerata uno spauracchio dalla solita intellighenzia impegnata un giorno sì e l’altro pure a fermare il ritorno del “fascismo” e del “razzismo”, può invece rappresentare un’irripetibile opportunità per riformare seriamente la decadente costruzione europea; un’ambizione che per diventare realtà deve però ancorarsi a dei capisaldi – non semplici esercizi retorici – in grado di disegnare un’idea di Europa alternativa e più efficiente. La storia della seconda metà del Novecento, ma anche più recente, offre numerosi spunti di elaborazione culturale per l’area sovranista.
Il 30 settembre 1988 al Collegio d’Europa – fucina dei quadri amministrativi comunitari – presso la città belga di Bruges, il Primo Ministro britannico Margaret Thatcher pronuncia un celebre discorso sullo stato del Vecchio Continente e sul rapporto tra la Gran Bretagna e l’allora Comunità europea. Trent’anni dopo i cinque principi-guida esposti con ardore e solennità nel Bruges speech costituiscono un irrinunciabile punto di partenza per ripensare l’Unione. Con largo anticipo, infatti, Margaret Thatcher ha messo in guardia dalla deriva centralista e sovranazionale delle istituzioni europee, nonché dal pericolo di trasformare il sogno comunitario nell’incubo di un moloch tecnocratico mal sopportato dai cittadini.
Sin dall’inizio del suo intervento, la Lady di Ferro mette nel mirino – senza voli pindarici, come nel suo stile – l’aura di sacralità che investe la Comunità europea. Scuote alle fondamenta una certa cultura politica che vorrebbe interpretare l’Europa come qualcosa di “proprietario”; oppure, ancora peggio, come il mero prodotto di un accordo giuridico di diritto internazionale. «L’Europa non è la creazione del trattato di Roma. Tanto meno l’idea europea è proprietà di qualsiasi gruppo o istituzione». E ancora: «la Comunità europea è una manifestazione di questa identità europea, ma non è l’unica». Questi due concetti costituiscono delle attualissime premesse fondamentali: esisteva un’Europa prima della Comunità e dell’Unione, e l’Unione non detiene il copyright dell’Europa. Non è l’Unione a tenere in piedi l’Europa, bensì il contrario. Può esistere un’Europa senza questa Unione, ma non può esistere un’Unione senza Europa. È l’Unione a derivare dall’Europa, e non viceversa. L’identità europea non è stata costruita – e non può essere costruita – a tavolino negli uffici di Bruxelles. Esisteva prima dei trattati e continuerà ad esistere dopo i trattati. È un’identità forgiata nei secoli dagli scambi commerciali, dall’alternarsi delle dominazioni e degli imperi, dalla reciproca condivisione e contaminazione nei campi del sapere che hanno unito le due sponde della Manica, dal collante della cristianità, dalla tutela della libertà individuale e della rule of law. Un’identità, basata su di una lunga «comune esperienza»; e bagnata dal sangue dei tanti soldati, anche britannici, che più volte nei secoli hanno combattuto «per evitare che l’Europa cadesse sotto il dominio di un unico potere».
L’identità europea è, dunque, un mosaico di identità nazionali. Senza queste tessere, il mosaico non può comporsi. Le diversità e l’unicità di ogni nazione sono un valore aggiunto, e non un anacronistico vezzo da spazzare via in nome della Comunità o dell’Unione europea. «[…] l’Europa non avrebbe mai prosperato e mai prospererà come un club gretto e ripiegato su se stesso. La Comunità europea appartiene a tutti i suoi membri. Deve rispecchiare le tradizioni e le aspirazioni di tutti i suoi membri». Essa non è «un dispositivo istituzionale che deve essere costantemente modificato secondo i dettami di un concetto intellettuale astratto, né si deve sclerotizzare in una regolamentazione senza fine». Ma cosa doveva essere, allora, la Comunità europea? Semplice: uno strumento. Più precisamente, «uno strumento pratico attraverso il quale l’Europa può garantire la futura prosperità e la sicurezza della sua gente in un mondo in cui ci sono molte altre nazioni potenti e gruppi di nazioni».
Ecco perché il primo principio non può che essere la cooperazione attiva e volontaria tra stati sovrani indipendenti, senza la necessità di centralizzare il potere a Bruxelles e di burocratizzare il processo decisionale. Il rischio è di perdere il sostegno dell’opinione pubblica – come già avvenuto in molti Paesi, in primis l’Italia –: il secondo principio, pertanto, prevede che le politiche comunitarie debbano affrontare i problemi presenti in un modo pratico, per quanto difficile possa essere. Diviene naturale ripensare ai tanti vertici, riunioni, incontri che si sono susseguiti in questi anni, e che si sono risolti in un nulla di fatto. Il terzo e il quarto principio sottolineano la necessità che le politiche europee sostengano la libertà economica e l’iniziativa imprenditoriale, nel quadro di un mercato unico europeo e di rimozione delle barriere che ostacolano il commercio. Il quinto, infine, che Margaret Thatcher definisce il più importante, è il ruolo dei Paesi europei nella difesa. Donald Trump ha recentemente sferzato i Paesi europei a fare di più per la difesa, e a non dare per scontato il dispositivo atlantico. Questo può essere, forse, il punto di partenza. Trovare un minimo comune denominatore per un difesa europea può essere il trampolino anche per dare avvio ad una nuova forma istituzionale per l’Unione: d’altronde, le storiche confederazioni sono iniziate così.
*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta