Per capire la crisi istituzionale più grave della storia repubblicana è necessaria una doverosa premessa, ovvero ricordare le parole del giurista Arturo Carlo Jemolo: «questa verbosità della Costituzione [e] questo frequente ricorso a formule vaghe non sono una semplice offesa al buongusto, ma riverberano su tutta la Carta costituzionale una nota d’indeterminatezza, di pressappochismo, che certo non le giova». L’articolo 92, divenuto improvvisamente celebre, non è purtroppo immune da vaghezza e indeterminatezza, e denota l’ormai assoluta inadeguatezza della nostra Carta nel fronteggiare le sfide del mondo globalizzato. Ciò precisato, è possibile analizzare l’interpretazione che Mattarella ha voluto dare a tale articolo, e verificare se può essere o meno considerata idonea.
L’articolo 92 recita: “Il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. L’italiano non è un’opinione: non sussiste alcun esplicito potere di veto da parte del Presidente della Repubblica sulla scelta dei Ministri. E non potrebbe essere altrimenti: l’Italia è una Repubblica parlamentare, non una Repubblica presidenziale. Il Quirinale non è l’Eliseo né la Casa Bianca. La nomina effettiva del Presidente del Consiglio e dei Ministri da parte del Presidente della Repubblica andrebbe a prefigurare un rapporto fiduciario che è presente solo, come detto, in una Repubblica presidenziale. Tuttavia, la fragilità del nostro sistema parlamentare ha fatto sì che le prerogative previste dall’articolo 92 siano state – in particolare dagli anni Novanta in poi – interpretate in maniera più ampia dagli inquilini del Colle, in particolare nei momenti di crisi e instabilità.
In questi casi la stella polare dell’azione presidenziale – talvolta definita di “supplenza” – è la ricerca di una solida e stabile maggioranza che garantisca il governo del Paese. In sostanza, e come noto, i poteri del Presidente della Repubblica si dilatano in assenza di una maggioranza, mentre in presenza di precisi orientamenti da parte dei partiti le prerogative quirinalizie vengono ricondotte all’alveo strettamente costituzionale. Si sono verificati dei casi in cui la nomina di un ministro è stata “stoppata” dal Colle, in talune circostanze attraverso una ferma moral suasion. Per citarne alcune: nel 1979 Pertini rifiutò Clelio Darida come ministro della Difesa. Nel 1994 Scalfaro impedì a Berlusconi di nominare Cesare Previti ministro della Giustizia e nel 2001 Ciampi bloccò ancora Berlusconi che spingeva per Roberto Maroni alla Giustizia. Da ciò, dunque, potrebbe derivarsi l’affermazione di consuetudini che assegnano al Presidente della Repubblica un effettivo potere di veto nella scelta dei ministri. Non è così.
Se, infatti, si vanno a verificare le ragioni che hanno bloccato le nomine sopra dette – procedimenti giudiziari in corso, conflitto di interessi, inopportunità etica – esse non sono mai andate in contrasto con l’articolo 95, che recita: “Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri. I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri. La legge provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri”. In presenza di una maggioranza parlamentare – in questo caso, assicurata da Lega e Movimento 5 Stelle – la discrezionalità del Presidente della Repubblica nella nomina dei Ministri trova, pertanto, due limiti invalicabili. Il primo è che tale nomina possa, eventualmente, faccia venire meno la maggioranza che sostiene il Presidente del Consiglio. Il secondo è che la decisione di bloccare la nomina possa configurarsi come una violazione dell’articolo 95, ovvero che lo stop presidenziale vada a inficiare l’azione del Presidente del Consiglio e l’indirizzo politico del governo.
È il caso di Paolo Savona. Il “gran rifiuto” di Mattarella è, a tutti gli effetti, una decisione squisitamente politica che non ha alcuna base giuridica, né consuetudinaria, né costituzionale. Per le sue modalità e motivazioni rappresenta a tutti gli effetti una novità. Si tratta, infatti, di un processo preventivo alle intenzioni, ancor più incomprensibile considerato che nel “contratto di governo” tra Movimento 5 Stelle e Lega non si fa menzione di uscire dall’euro. È un palese tentativo di condizionare, ridimensionandolo, l’indirizzo politico e programmatico di un possibile esecutivo. Assicurare il rispetto dei trattati e degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali e sovranazionali non significa assegnare al Presidente della Repubblica il potere di sbarrare le porte di Palazzo Chigi a chi manifesta orientamenti “eretici” nei confronti di Bruxelles. La ridiscussione dei trattati europei è un tema che, invero, sarà centrale nei prossimi mesi nonché nei prossimi anni. La volontà di ridiscutere i trattati da una posizione fortemente euroscettica non può essere considerata una minaccia tale da richiedere un inedito veto presidenziale, creando così un precedente pericolosissimo. Nè si può richiedere una “professione di fede europea” a ogni personalità scelta per ricoprire il ruolo di ministro dell’Economia. Occorre altresì sottolineare che sul nome di Paolo Savona v’era la piena convergenza del Presidente del Consiglio incaricato e dei partiti che lo sostenevano, quindi l’eventuale nomina non minava affatto la stabilità della maggioranza: anzi, semmai la rafforzava.
Mattarella ha affermato di non poter subire imposizioni: ma, a sua volta, non può costruire barricate improvvisate. Il suo comportamento è un’evidente forzatura che ha creato l’ennesimo vulnus in ordinamento costituzionale già morente, nonché allargato la frattura già presente tra i cittadini e le istituzioni. Violare le regole per arginare il “populismo”: l’establishment ha già scritto il proprio epitaffio.
*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta